Burcei
Cagliari, 18 agosto 2004, mercoledì,
13 dicembre 1995, si festeggia Santa Lucia. A Cagliari
20 gradi e cielo sereno per la giornata più
corta dell’anno.
di
Sandro Mocci
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Questo racconto lo scrissi nel ’95, ma lo completai solo
nel ’96, dopo l’incidente che mi spedì all’ospedale
per qualche mese: non portavo il casco. Meditate, gente,
meditate…
Il testo ha avuto bisogno di una rinfrescata qua e là.
Non avrei voluto ritoccarlo: è meglio lasciare
ciò che si è già scritto così
come fu scritto all’inizio. È inutile torturare
il testo con continue limature. A furia di limare, tutto
diventa piatto, trasparente, inconsistente. Certo che
la varietas delectat, come dicevano i latini, e che Venere
era così attraente proprio perché era strabica
che si troncava! Però un minimo di ritocco era
necessario. Purtroppo la videoscrittura permette con eccessiva
facilità queste operazioni di maquillage. Spero
di non averne abusato. Certo, il mio stile è molto
cambiato, ma questo non giustifica una riscrittura radicale
del racconto; piuttosto alcune lievi modifiche, qua e
là, perché nella stesura originale il lettore
moderno avrebbe faticato a capire certi episodi e un ciclista
di Gallarate si sarebbe perso nei toponimi. Ora ci sono
i satellitari e non ci si perde più, nemmeno nei
toponimi, ma in quegli anni…
Buona lettura!
Cagliari, 18 agosto 2004.
Mercoledì, 13 dicembre 1995, si festeggia Santa
Lucia. A Cagliari 20 gradi e cielo sereno per la giornata
più corta dell’anno. Ho il pomeriggio libero e
ne approfitto per un giro in bicicletta. Natale è
vicino. Porchetti, capretti, anguille, datteri, panettoni
e consimili trappole sono in agguato. Niente di meglio
che prendersi un bel vantaggio sulle strippate venture.
Liberarsi di tremila calorie in un colpo solo è
il lasciapassare per mezzo maialetto in più tra
dieci giorni. Tremila calorie sono quattro ore tirate
di percorso collinare, con qualche salita impegnativa
a ritmo sostenuto, ovviamente sulla bici da corsa. Esco
da Cagliari e dirigo deciso la prua su Burcei. Burcei.
Fa rima con Canazei, Ortisei e Gressoney, ma non è
la stessa cosa. Ma per noi sardi basta e avanza. È
un paesino a 40 km dalla città, a quasi 700 metri
di quota. Sette chilometri di salita impegnativa, ma non
trascendentale. Ma per noi isolani, a corto di salite
serie, è una vera e propria horse categorie, fuori
quota. È l’università della salita. Chi
ha la minima velleità di fare montagna seria, parlo
di Alpi e Pirenei, deve farla con una gamba sola. È
anche un percorso gradevole, immerso nella macchia mediterranea.
La salita è accompagnata dalla vista di sughere
e lecci secolari, ciliegi e castagni. La foresta attraversata
pullula ancora di cinghiali, di cervi e di mufloni. Beeh,
pullula è un po’ troppo. Un tempo, forse, pullulava;
adesso pullulicchia, ma nelle locandine della pro-loco
pullula ancora fiera di sé; tant’è... Sarebbe
opportuno che noi ciclisti ci impegnassimo un po’ di più
per farla veramente pullulare ancora. All’ingresso di
Burcei parte il sentiero che porta a Serpeddì,
colle di mille metri, irto di antenne e ponti radio, da
cui si domina tutto il Campidano. Purtroppo come ciclista
ho tanti difetti. Ad esempio, sono un velleitario cinematico.
Cioè avrei la faccia tosta di pretendere che al
grasso, e quindi a me, in salita vengano applicate soltanto
le leggi della cinematica e non anche quelle della dinamica.
Per chi l’avesse nel frattempo dimenticato, rammento che
la cinematica è la parte della fisica che studia
il moto sotto l’aspetto matematico, mentre la dinamica,
al contrario, descrive il moto dei corpi in funzione delle
forze che intervengono, cioè il peso, e quindi
tiene conto del tempo che lardo e pancetta fanno perdere.
Essendo velista sono anche un velleitario astronomico,
perché ogni tanto pretendo di applicare l’astronomia
marina al ciclismo. È pur vero che a Cagliari il
13 dicembre il sole tramonta alle 16,50, ma sull’orizzonte
marino, bello e piatto. In montagna non funziona così,
specie dal lato rivolto ad occidente. Risultato: alle
porte di Burcei alle quattro del pomeriggio già
le prime (forse anche le seconde e le terze) ombre della
sera incombono minacciose. Avrei dovuto girare mezz’ora
prima, accorciando il percorso. Magari al bivio di Campu
Omu, al valico di Arcu ‘e Tidu. Questo nome è tutta
una stronzata: ’e Tidu” non significa niente. Deriva dalla
solita cagata di mosche nella cartina sgualcita di qualche
distratto topografo del secolo scorso. Il vero toponimo
è “Arcu neridu”, che significa passo nevicato,
nebbioso. Tuttavia i cartelloni dell’Anas, come in tanti
altri luoghi, hanno ormai perpetuato lo scempio. La spiaggia
di “Margine rosso” sul litorale cagliaritano, ad esempio,
altra grande sciocchezza: non ci sono margini lì,
ma solo margiànis, cioè volpi. Per farla
breve, inverto la rotta solo quando il disco scarlatto
del sole si è già tuffato dietro la cima
del monte Arcosu, che sarebbe il Resegone di Cagliari
(un aiutino per il gallaratese). Al colmo dell’imprevidenza
ho portato solo gli occhiali da sole ed il traffico delle
feste incomincia a farsi sentire. Farò tutto il
possibile per recuperare in discesa. Almeno questa volta
la dinamica mi aiuterà. Invece ...pssssh... la
ruota posteriore! Bucata. Maledizione, giù subito
a riparare la foratura. Calma e sangue freddo! Cinque
minuti saranno sufficienti. Calma, ...però. Ne
impiego dieci. Monto in sella e via giù a perdifiato.
Un chilometro e in piena curva ancora... pssssh! Oooh
no, ancora la ruota posteriore! Forse ho pizzicato. È
così che diciamo quando il copertoncino acchiappa
un lembo della camera d’aria, creando un’ernietta che
si spacca immediatamente. Ormai la frittata
è fatta. Per fortuna ne ho un’altra di scorta.
Di camera d’aria, non di frittata. Un altro quarto d’ora
se ne va, imitato dagli ultimi raggi di sole. La pompa
è difettosa. Ancora dieci minuti per gonfiare.
Ormai sarò costretto ad entrare nei centri abitati
senza tirar dritto per la statale. A Quartu Sant’Elena,
per esempio, sempreché riesca ad arrivarci, e dovrò
attraversarlo senza fari. In compenso salterò la
circonvallazione, pericolosissima in piena oscurità.
Ho pure un gettone. Male che vada, alla prima cabina telefonica
chiamerò qualcuno per venire a riprendermi (ciclismo
ante telefonia cellulare: la vita appesa ad un gettone).
Passano inesorabili i minuti ed il buio mi sopravanza
in velocità. Sono proprio nella cacca… Non c’è
dubbio, la situazione volge rapida al brutto; continuare
così è proprio un azzardo. Pazienza, scomoderò
qualcuno. La prudenza innanzi tutto. Ecco di nuovo il
bivio di Campuomu; sono ancora a meno trenta da Cagliari.
Passato il bivio e ripresa la statale, sento alle spalle
il borbottio d’un diesel, ancora distante, che arranca
dall’altro versante e si dirige verso di me. Speriamo
sia uno di quei furgoni, carichi e maleodoranti, che rientrano
la sera in città. L’ideale sono i motocarri, molto
più lenti ed inodori: cravati, ma puliti. Il diesel
è più veloce, ma in discesa non mi molla.
Pazienza per la puzza. Poi in rettilineo andrà
più veloce, toccherà i sessanta. Col buio
sarà tosto stargli a ruota. Molto pericoloso. Troppo.
Beeh, vedremo. I suoi fari, già accesi (vecchio
codice), spazzolano sempre più vividi le curve
davanti a me. Mi volto un attimo a controllare; ne scorgo
i fari e la sagoma confusa che mi raggiunge molto lentamente.
La tecnica di aggancio è facile: di norma, in discesa,
ci si fa raggiungere ed affiancare gradatamente; poi,
un lieve tocco di freni; appena è passato davanti,
uno scatto deciso e ti sistemi a ruota, nella sua scia.
Ormai è buio. Il diesel si affianca. Il ronzio
del motore è regolare, sembra un Mercedes. Con
la coda dell’occhio, mentre mi sorpassa, noto appena la
sua sagoma scura, badando invece alla cunetta, pericolosamente
vicina. Mi supera. Sembra un carico di fascine. Eccellente,
un pick-up pieno di frasche. Adesso si chiamano pick-up;
prima, negli anni cinquanta, si chiamavano camioncini.
Questi moderni sono più veloci e più comodi,
più fighi insomma, sennò nei telefilm americani
non li avrebbero usati, né i moderni chow boys,
né gli avventurieri di turno. Però caricano
poca legna. Qualche fascina di lentischio, “sa modditzi”
o di cisto, “su murdegu”, gli arbusti che ardono profumati
nei forni e nei focolari caserecci. In compenso, di sabato,
caricano molte più fichette.
Il vecchio “OM 315”, invece, chi se lo
ricorda? Di fichette non ne caricava, ma di fascine si!
Rammento, da bambino, che un paesano lo caricava così
tanto che s’impigliava nelle luci della strada e ne tranciava
una su tre. Comunque in questo diesel, pick-up o camioncino
che fosse, sempre di frasche si trattava e le frasche,
come sostiene il mio vecchio amico Billy Bellisai, cravano,
cioè inchiodano al suolo, rallentando chi le trasporta,
e proteggono chi si accoda, dall’aria e dal vento. Certo,
bisogna essere lesti a scansare qualche ramoscello che
ogni tanto si stacca, schizzando via pericoloso, ma nulla
di più. Mentalmente mi frego le mani; solo mentalmente,
sennò potrei cadere, perché siamo in curva.
In rettilineo ci si può sfregare le mani anche
con le mani. Bene, bene, è proprio cravato, come
dice Billy, anche se puzza appena di gasolio mal combusto.
Le frasche funzionano egregiamente: riparano a meraviglia.
Le frasche. Accidenti, a ben vedere non sono frasche.
Anzi, per essere frasche, sono proprio frasche; solo è
che sono frasche di palme. Ben riposte, lucide, ordinate.
Non in fascine: in corone, con tante rose bianche e garofani
rossi. Cazzo, è un carro funebre! Pieno. Pieno;
vale a dire con
autista davanti e passeggero dietro, con contenitore regolamentare.
Che dire? Che fare? Che pensare? Intanto stare in equilibrio.
Sulle corone le iscrizioni dorate svolazzano…lugubri.
Funeree. E come volete che svolazzassero? Allegre? Garrule?
Tintinnanti? Per un attimo la paura della morte vince
quella del buio incombente. Sono tentato di lasciarlo
andar via. A ruota d’un carro funebre non mi sembra dignitoso.
Eppoi un po’ di fifa…Ma in fondo, che diamine!, la morte
era passata da un pezzo, lì c’erano solo gli effetti;
i resti e basta. Dietro al carro neppure l’ombra di accompagnatori.
Mi sarei riparato dietro le loro macchine. Evidentemente
non era un funerale. A quell’ora i cimiteri sono chiusi.
Era un semplice trasporto di salma. Bene. La prendo con
filosofia e, sempre mentalmente, mi rifrego le mani. Dopotutto
taglia l’aria meglio d’un motocarro e dietro nessun parente
si sarebbe risentito per l’intrusione. Gli estranei nei
cortei funebri danno sempre fastidio. Specie quelli che
si spacciano per parenti. Funerali o matrimoni, i posti
d’onore è meglio lasciarli ai legittimi titolari.
Le ampie fiancate di vetro forniscono un riparo eccellente
dal flusso impetuoso dell’aria. Le lampade votive laterali
(ma sono poi proprio…votive?), funzionando da luci di
ingombro, costituiscono un formidabile punto di riferimento
sul quale allineare la direzione di marcia. La loro pallida
luce non abbaglia, anzi riduce il pericolo di arrotare
il paraurti. Tamponare l’auto e rovinare a terra è
un esercizio spericolato da evitarsi il più possibile.
Eppoi dalle vetrate, oltre la bara, si vede pure la strada
davanti, che non si vedrebbe col classico camioncino carico
di modditzi e di murdegu. Certo con un bel trattore oppure
con uno scavatore sarebbe stato un bell’andare, ma forse
a quell’ora è chiedere troppo. Scendiamo da Campuomu
lenti e regolari e, superato l’abitato di san Gregorio,
abbordiamo finalmente il rettilineo. Spero tanto che non
acceleri. Dopotutto, il passeggero che fretta ha? Sono
certo che l’autista non si è accorto di me. Chi
potrebbe immaginare a quell’ora un cretino a ruota d’un
carro funebre? Dal momento dell’accodamento nessun veicolo,
d’accompagnatori o d’altri, ci ha raggiunti. Ormai è
chiaro: è proprio un trasporto di salma, proveniente
da chissà dove e diretto chissà dov’altro.
E sembra non avere fretta. L’autista, è ovvio.
Mah. Forse, in un attimo di rallentamento, sarebbe stato
più prudente superare il carro e fare cenni inequivocabili
al conducente di tenere un’andatura moderata. L’avrei
spaventato? Un autista di carri funebri si spaventerà
di più a veder morti o veder vivi? Tuttavia è
sempre pericoloso stare a ruota di qualche mezzo ed è
ancor più pericoloso se chi sta davanti è
ignaro di chi gli stia dietro, appiccicato. Nel caso in
esame, una brusca frenata ed avrei guadagnato un posto
dentro, magari non subito, magari con un suo concorrente.
La pendenza della strada diminuisce sempre più.
Qualche fioca luce di villette, ai lati della strada,
contribuisce appena alla visibilità. Le siepi di
fichi d’india della pianura intrappolano inesorabili gli
ultimi chiarori del sole ormai sopito. Fra poco il carro
mortuario mi mollerà. È inevitabile. I camioncini
lo fanno tutti nello stesso punto: quattro curve dopo
san Gregorio, un rettilineo, una accelerata e il ciclista
è bell’e che scrollato. Questo, però, aumenta
d’un pelo la sua velocità: si mantiene sui cinquanta.
A fatica, ma lo tengo. Ancora qualche doppia curva, la
discesa di Burranca, poi il lungo rettifilo della frazione
di san Paolo e lì davvero finirà. Evvabbè,
tanto proprio lì c’è la cabina telefonica.
E invece no, non accelera secco neanche stavolta, anzi
rallenta un poco, stabilizzandosi appena sopra i quaranta.
Riesco persino a notare la velocità sul ciclocomputer
con la luce delle lampade votive. È un attimo di
relativa tranquillità: i quaranta sono una comoda
andatura di crociera, anche per i ciclisti robustelli
come me. Riesco a distinguere ancora nitidi i contorni
delle colline e quel vago chiarore del cielo sull’orizzonte,
dal lato del sole da poco tramontato (i gallaratesi che
guardano il tramonto sul Resegone mi capiranno). Il cielo
è terso e l’aria è secca; non c’è
foschia: davvero una fortuna! Percepisco persino gli odori:
il classico aroma dei fuochi domestici di qualche villino,
lì accanto. Quel caratteristico odore di brace
di leccio che prelude alla fragranza delle carni arrostite!
Oppure il profumo della “modditzi” che arde scoppiettando,
che evoca il saporito pane sardo fatto in casa! Il borbottio
discreto del diesel, certamente silenziato, mi fa compagnia,
l’odore del gasolio è sopportabile e, suvvia, non
sarà un’ammiraglia al Giro d’Italia, ma a casa
mi ci sta portando. Un vago sentimento di riconoscenza
si fa strada in me. Abbozzo un requiem all’indirizzo di
chi mi precede. Ogni tanto un garofano si stacca e mi
passa vicino sibilante. Non porto il casco ed il fatto
mi costringe a bruschi spostamenti del tronco. Il rischio
di perdere l’equilibrio è notevole. Se il carro
non cambia l’andatura, raggiungerò di sicuro la
periferia di Quartu all’estremo crepuscolo. In città,
con l’aiuto dell’illuminazione pubblica sarò in
salvo e, per giunta, senza disturbare nessuno. Continuo
a vedere la strada oltre la bara e le poche macchine coi
fari già accesi che ci vengono incontro. Dietro,
ancora nessun veicolo. Meglio. Se non fosse per l’oscurità
mi sarei tentato una fregatina di mani dal vivo. Sono
assorto e concentrato nella guida, quand’ecco un movimento
all’interno del carro funebre: il cuscino di fiori sopra
la bara, forse fissato male, scivola via. Sobbalzo, ma
mi ricompongo. Qualche buca nella strada. Ma che buca
e buca, caspita, la bara si muove! Il coperchio scivola
giù e rimbalza di lato. Anche quello fissato male? Macché, era proprio una buca. Uno scossone ed il
coperchio è volato via. Ma sì, cavolo, la
bara è vuota. È tutto un bluff, porta una
bara vuota! Tra l’altro, ma che scemo, non si vedevano
i sigilli, quelli che fissano tutte le bare occupate stabilmente.
Che fesso! Che strizza per niente! No, accidenti! Cribbio,
la bara è…abitata. Si è accesa una luce,
un chiarore tenue, come di statuine fosforescenti. Una
figura si rizza sul tronco. Avrei dovuto dire figura lugubre?
Volete che scriva lugubre? Va bene, lugubre. Luguberrima.
Si solleva per intero, poi, diafana, si avvicina alla
vetrata posteriore. In modo innaturale, come una zoomata
stroboscopica. Naturalmente, all’apparire della luce spettrale,
chiunque, se avesse avuto la fortuna di non crepare d’infarto,
che sarebbe stata la fine più naturale ed avrebbe
dato il destro ai soliti: “...ecco, non fanno le visite
mediche e poi fanno le scemenze di uscire all’imbrunire
e crepano dallo sforzo per tornare in tempo. Poi quello
lì ci aveva pure un’onda “T” negativa all’elettrocardiogramma.
Ma chi gliel’ha data l’idoneità?” chiunque, dico,
che avesse avuto la forza ed i nervi saldi per non lacerare
il buio con un urlo bestiale di paura e di raccapriccio,
avrebbe dato una robusta tirata di freni e, semprechè
fosse riuscito a fermarsi, si sarebbe accasciato in cunetta
a pregare, se credente, o si sarebbe apprestato a chissà
cos’altro, se agnostico o debole di pancia.Ma quello lì
non è un morto, è la ‘Morte’ ed io non riesco
a distaccarmene. Non posso fermarmi; non posso proprio.
Io quel morto lo conosco. È vestito da ciclista,
indossa la tuta che somiglia vagamente a quella del mio
gruppo sportivo, sfumata, nell’incerta luce riflessa sul
vetro. Pallido, non di pallore cadaverico, ma bianco di
debolezza. La fronte è insanguinata, ma il sangue,
ormai secco, scorre all’insù. I capelli, folti,
sono intrisi anch’essi di sangue. Non porta occhiali.
Acuta osservazione, complimenti! Notare che uno non porta
occhiali quando non ne porta, è proprio da Sherlook
Holmes. Salvo sapere che li usa abitualmente. E costui
abitualmente li portava. Forse li aveva persi nell’incidente,
perchè la causa del suo decesso sembrava proprio
un incidente. Infatti ha un largo sbrego nella fronte,
con i lembi ancora aperti. Sembra una melagrana matura.
Le mani insanguinate. Le mie mani. Sono proprio le mie
e lui sono proprio io. Ecco perchè non posso fermarmi:
sono io e rincorro me stesso. Ho il cardio al polso. Lo
sento squittire impazzito; dal ritmo avverto che segna
una frequenza ben superiore alla mia, di sicuro oltre
i 200 battiti. Perchè, oltre lo sconcerto, la macchina
aveva ripreso a correre. Ansimo come una vaporiera, le
tempie mi martellano. Proseguo come un automa, non riesco
a staccarmi da quello che ha tutta l’aria d’essere il
mio futuro. E dire che un sacco di gente non riesce, al
contrario, a staccarsi dal suo passato. Corro dunque all’impazzata
dietro al mio futuro di morte. Non ce la faccio proprio
più; un dosso mi mozza il respiro e smetto di pedalare.
Quello lì, cioè io, incomincia a parlare.
O meglio io credo di sentirmi, o qualcosa del genere,
perché il ronzio del motore ed il fruscio delle
corone, il rumore del vento e della scia non permettono
di sentire altri suoni. Diciamo pure che ci comprendiamo.
La macchina, nel frattempo, mi distanzia di qualche metro.
Lui mi fissa: “Corri, non fermarti, se ti stacchi mi allontanerò,
ma più andrò avanti, più diventerò
il tuo presente. Rincorrimi, prendimi, almeno sfiorami
ed io non sarò il tuo futuro.” Una corsa pazza
verso la vita. Il cuore scandiva per conto suo un ritmo
assurdamente mortale. Paradossale: morire per riuscire
a vivere! Quel ritmo mortale io lo conoscevo: scherzi
dell’elettronica: ogni volta che transitavo in bici in
città davanti alla solita banca, i sistemi d’allarme
interferivano con il ricevitore ed il cardio impazziva
per qualche secondo, 300 pulsazioni! poi tornava normale.
Ma ora banche non ce n’è. Quello che suona è
il mio cuore, quello vero, e non ce la fa più.
Ed il carro allunga ancora: altri cinque metri, dieci,
quindici. I polpacci mandano segnali di resa. Perdo la
scia. Quel coso lì, c’è proprio bisogno
che diventi il mio futuro, prossimo o remoto che sia?
Oppure, pazzia per pazzia, non è il caso di tentare
una volata, di quelle alla...morte, alla spacca clavicole,
alla Abdujaparov (ma oggi Cipollini, Zabel e Petacchi)?
Una volata per la vita! Riémpiti i polmoni e via.
Spacca quei pedali! Tira! Tira! Ora capisco cosa significa
‘tirare alla morte’. Ecco cosa vuol dire. Quindici, dieci,
cinque metri ancora, il colpo di reni, un nastro sfiorato.
Un guizzo, il carro accelera improvviso ed irreale, come
un missile, e sparisce nel buio. Però l’ho sfiorato.
Si, l’ho proprio toccato. Sarebbe servito? Mi trovavo
nel buio, avanzavo solo coi miei pensieri in un silenzio
irreale. Ecco distanti, ma non irraggiungibili, le prime
luci della città. Pedalo assorto, come un automa,
perplesso sulla efficacia del tocco. Sarebbe bastato quel
nastro sfiorato con la punta delle dita? Come l’ultima
interrogazione dell’ultimo quadrimestre, a maggio, prima
degli scrutini: tutto il programma ripassato la notte
prima; rispondi a tutto, ma senza brillare. Basterà?
È bastato, per fortuna, ma quanta fatica!
Tre settimane dopo, un freddo pomeriggio di gennaio, tornando
in bici all’imbrunire, a dieci minuti da casa, una frenata
brusca dietro di me. Un volo, un sonno lungo, come di
siesta pomeridiana. È coma. Poi il risveglio, tanta
gente che mi guarda, steso, a testa in giù. Il
traffico bloccato per chilometri. Il sangue che gronda
inzuppando i capelli, un torrente che arrossa l’asfalto
del Quadrifoglio. “Non si muova, arriva l’ambulanza.”
“E la bici?”Un poliziotto: “Non si agiti. Stia calmo.
Se ne freghi della bici.” Una ragazza, un viso dolce ed
una voce ancora più dolce, con un cellulare in
mano: “Vuole che chiami qualcuno?” “Si, mia moglie...”
e svengo di nuovo.
Il resto, tutto vero, è scritto nella mia cartella
clinica e nel referto della Stradale. Però posso
raccontarlo, a tavola, a piedi o in bicicletta. Forse
col casco mi fratturavo solo l’alluce. Ora esco in bici
solo di mattina e di carri funebri non ne rincorrerò
più, almeno per un pezzo!
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