Il Campione degli anni Cinquanta ha vinto la gara più difficile
di Lucio Salis- 26/03/2005
(In questo articolo, Lucio Salis, ha saputo cogliere l'intimo pensiero e stato d'animo di un atleta gravemente infortunato. Infatti oltre ad essere un bravo giornalista, Lucio é un caro amico ciclista con il quale abbiamo condiviso molte pedalate).
L'odissea di Salvatore Secci semiparalizzato nove anni fa da un ictus é tornato su strada in sella a un avveniristico triciclo da corsa
Dall'incubo dell'ictus alla vittoria. Salvatore Secci ha tagliato il traguardo più prestigioso su un triciclo da corsa. Lui (64 anni) cagliaritano, campioncino degli anni Cinquanta, quando la bici era popolare quanto il pallone. E ha continuato a correre sino a 9 anni fa, poi si è fermato all'improvviso, sulla salitaper Teulada.
Un black out al cervello che lo ha proiettato d'urgenza al Pronto soccorso. "Emorragia cerebrale con paralisi della parte destra del corpo" è stato il referto.
Come dire, condannato all'immobilità o, nella migliore delle ipotesi, sedia a rotelle. Una follia per uno come lui, kamikaze delle volate, abituato a danzare sui pedali in salita, a lanciarsi a ottanta all'ora nelle discese "a bara aperta". Un uomo - macchina in moto perpetuo, un mix di telaio - gambe - ruote abituato a muoversi al ritmo di un cuore a prova di bomba.
Sempre più forte, sempre più forte, col vento in faccia, l'asfalto in fuga sotto gli occhi, curva e controcurva pennellate con maestria, cambio di marcia e scatto sull'erta da superare al volo. Senza sentire catena, senza affanno, nel silenzio appena incrinato dal sibilo del tubolari.
Piacere assoluto, riservato a quei fanatici della fatica capaci di raggiungere la magica armonia tra uomo e mezzo, muscoli e acciaio. E all'improvviso, stop, tutto finito su quel tornante maledetto di Teulada. Uno schianto, che ha lasciato il ciclista inerte e stupefatto.
In quel momento Tore Secci ha capito che per sopravvivere doveva scalare la montagna più dura. Per nove anni si è trascinato tra ospedali e centri di recupero, col braccio inerte e la gamba di pietra.
Ora che ha vinto, può raccontare la sua avventura a lieto fine, appoggiato al trabiccolo da corsa che gli ha ridato la gioia di tornare sulle strade, di sentirsi ancora un vero ciclista. Parte da lontano Tore, sotto lo sguardo di Rita, moglie manager psicologa, dal sorriso dolce, più eloquente di qualsiasi discorso. «Ho disputato la mia prima gara a 15 anni, da esordiente.
Una passione, quella della bici,
ereditata da mio fratello, dilettante di buon livello.
Per me, orfano di guerra, reduce da sei anni di collegio,
pedalare significava essere finalmente libero. Volare». E quel ragazzino dal fisico minuto, (come ora), dimostra subito di avere stoffa.
Da esordiente ad allievo, vince una decina di corse, soprattutto in volata e si laurea campione sardo (nel '58 e '59) nella Coppa Adriana, cronometro a squadre.
Poi il passaggio tra i dilettanti, sono gli anni di Antimo Murgia, Bratzu, Marco Marini, Giovanni Garau, i mitici professionisti Aru e Pau.
Tore si segnala in una Coppa Vadilonga (la Milano Sanremo sarda), va in fuga ma viene ripreso vicino a Teulada ( paese che non gli porta fortuna). Vorrebbe compiere il gran salto tra i pro, «il mio sogno, ma erano anni difficili, ottenevo buoni piazzamenti però non avevo nessuno che mi seguisse. E avevo bisogno di lavorare. Iniziai come orologiaio, mestiere ingrato, perché mi obbligava a stare chiuso in una stanza. E io pensavo sempre alla bicicletta». Abbandonati gli orologi, Tore fonda la Sardacamping, (articoli sportivi) con capannoni in viale Monastir. Ma non dimentica il vecchio amore. Torna alle gare, prima tra i veterani, poi tra gli amatori e infoltisce la già cospicua rastrelliera di coppe.
Si iscrive nella società Amatori Cagliari e alle corse alterna raid in Italia (giro delle Dolomiti, Umbria) e all'estero (Torino - Parigi, Corsica). «Mi stavo allenando per tornare sulle Dolomiti quando, il 17 agosto del '96, ho avuto l'incidente. Stavo salendo con due amici verso Teulada e la gamba destra diventa improvvisamente insensibile. Mentre mi portavano all'ospedale, mi si blocca pure il braccio. E la bocca diventa storta, con una strana smorfia. Mi cade il mondo addosso.
Non riesco neppure ad esprimermi». Per il cliclista e la sua famiglia è l'inizio di un periodo nero. «Improvvisamente la mia vita crolla, chiudo l'attività commerciale, l'ingrosso di viale Monastir e tre negozi a Cagliari. Mi sento completamente inerte. E non riesco a capacitarmi di cosa mi stia succedendo. Forse perché pensavo che certe cose potessero accadere solo agli altri. Ma rimugino: all'epoca, gli affari non andavano bene. Erano gli anni dopo Tangentopoli, gli enti pubblici non mi ordinavano più niente, gli amministratori avevano paura.
Chissà, forse quell'ictus è figlio delle preoccupazioni che mi assillano». Anziché piangersi addosso, Tore inizia la scalata più lunga della sua vita: la rieducazione. «La mia fortuna è stata incontrare la dottoressa Agnese Lussu, del centro Ausonia (Als 8). Lei mi segue, insieme al fisioterapista Piergiorgio Orrù. Il recupero è duro, durissimo, certi esercizi sono così dolorosi che mi metto a piangere.
Così, passo dopo passo, compio continui progressi. Ma la prima luce appare quando riprendo a camminare. Un giorno ero così contento che decido di tornare a casa a piedi, dall'Aias a Quartu: 13 chilometri, mica uno scherzo. Non vedo l'ora di recuperare. Ma ci sono anche i momenti di disperazione,
quando si forma un trombo in una gamba. E temo che svanisca
all'improvviso quanto ho fatto». Incubi passati. Dopo i primi sette anni di
calvario, nelle mente di Tore torna la bicicletta, «ne blocco una, in casa, su rulli da allenamento e provo a far girare le gambe. Un disastro. La sinistra spinge, la destra si muove a scatti. Ma insisto, sino a raggiungere una pedalata accettabile». Il passo successivo è il tandem: «Un amico carissimo (Pierpaolo Murgia) sta davanti, io dietro, con la mano destra bloccata da nastro adesivo. Una meraviglia tornare nel gruppo. Un giorno andiamo da Mandas a Jerzu e l'indomani da Jerzu a San Priamo. Ma mi sento in colpa, ho paura di sacrificare il mio amico. Così smetto. Sino a quando, su indicazione di Piergiorgio Orrù, la Asl non mi dà un triciclo. In ferro, pesante 30 chili, ma sufficiente per rendermi autonomo». Così Tore Secci indossa il casco, la divisa da ciclista e inizia le prove nell'anello intorno al Sant'Elia. «Era felice - racconta Rita - così un giorno ha lasciato lo stadio e se n'è andato in giro, mentre io lo cercavo disperata. È arrivato sino all'Ausonia. Quando lo hanno visto, medici e infermieri sono usciti dal centro e gli hanno fatto un'ovazione. Come se avesse vinto una corsa. Ma avevano vinto anche loro». Dalle prove agli allenamenti veri e propri, il passo è breve: 50 chilometri al giorno, dalla sua casa di Flumini a Cagliari e ritorno. «È meraviglioso, ritrovo i vecchi amici, tre ruote a parte, è come andare in bicicletta». Ormai lanciatissimo, Tore non si ferma più e scopre un modello più leggero che trasforma in autentica macchina da corsa: butta via il cestino sistemato sulla parte anteriore e monta una forcella in alluminio, cambio a otto rapporti con doppia moltiplica e comandi al manubrio, freno a disco e ruote superleggere con copertoncini al posto dei pesantissimi cerchi da mountain bike. Un bolide.
E un successone. «La gente mi ferma, soprattutto le donne mi chiedono informazioni, ne vorrebbero uno uguale per andare a fare le spesa. Per farla breve, ne ho già venduto quattro. Ma io vorrei insegnare come usare il triciclo a quelli nelle mie condizioni. Ad esempio come cambiare rapporto senza forzare, come si dice in gergo a gamba morta». Ride di gusto Tore, per la piccola gaffe, il suo viso ha riacquisito la vecchia fisionomia. Certo, la mano destra non è sensibile, ma ha costruito una sorta di asola sulla manopola che gliela tiene bloccata. Chi lo ferma più. Ormai controlla persino i tempi di percorrenza. Obiettivo, appena sussurrato: le Paraolimpiadi. «Dopo quello che ho passato, lasciatemi almeno sognare». |