Vedi Isola gemella di "Rottnest Western Australia" L'Isola
dell'Asinara
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un paradiso dove per tanti
anni è stato parcheggiato "l'inferno"
Il
26 maggio siamo andati alla scoperta dell'Isola Asinara
(diventata Parco Nazionale il 27 dicembre 1997 a seguito
dell’emanazione della legge quadro sulle aree protette
n. 394 del 6 dicembre 1991).
COME ARRIVARE.
Per arrivare all'Asinara
partendo da Cagliari si percorre
la S.S. 131 in direzione Oristano - Sassari (a Sassari
sono circa 210 Km.) e, una volta giunti alla periferia
di Sassari si prosegue, sempre sulla S.S. 131 per Porto
Torres - distanza 19 Km. circa. Giunti al porto si seguono
le indicazioni per Stintino e una volta arrivati si percorre
il centro del paese sino a raggiungere il Porto Nuovo
dove ci si imbarca.
Vedi l'Isola
di Rottnest
, la sorella australiana dell'Asinara,
adibita anch'essa a prigione, ma già nel 1920 cadde
in disuso e l'isola divenne un luogo di evasione per la
comunità di Perth la capitale dell'Western Australia.
Oggi una grande meta turistica.
Si
possono effettuare solo visite guidate con fuoristrada,
Autobus o col trenino. Le Escursioni sono giornaliere
e si parte alle ore 9.30 (imbarco ore 9,15) dal Porto
Nuovo di Stintino e rientro a Stintino alle ore 17.30.
La traversata ha una durata di 20 minuti circa.
L'estensione dell'Isola è di
52 km2, lunghezza massima 17,5 km e larghezza massima
6,15 km. Il rilievo maggiore è "Punta della
Scomunica" di 408 metri.
Per quanto concerne la fauna, sono presenti
80 specie di vertebrati terrestri e la flora è
rappresentata da ben 678
specie di cui 29 endemiche.
Non si possono fare escursioni a piedi
ma in bicicletta è consentito percorrere l'Isola
in piena autonomia. Le biciclette, con grande dispiacere,
non si affittano sul posto e l'unica alternativa se si
vuole usare questo mezzo è portarsela da casa.
Servizi
Purtroppo in tutta l'isola
c'è un solo distributore di bibite e caffè
collocato nel corridoio di accesso ai bagni nella località
Cala Reale dove il bus fa la sua sosta liberando il carico
dei turisti e creando inevitabilmente una lunga fila di
attesa: Caffè? No, pipì.
"...ricevo e doverosamente
pubblico"
Ciao
Ivana,
"...Forse per completezza bisognerebbe descrivere
oltre quello che c'è sull'isola anche tutto quello
che non c'è e che invece ci dovrebbe essere visto
che il Parco Nazionale è attivo ormai da dieci
anni. Proprio un paio
di giorni fa sulla Nuova Sardegna è uscito un articolo
che denuncia la situazione dei rifiuti abbandonati all'Asinara.
Voi non li avete visti perchè non ve li hanno fatti
vedere, ma ci sono. Molto meno che in passato,
ma ci sono. Compresi alcuni pulmini elettrici acquistati
dal Ministero e mai utilizzati, inspiegabilmente massacrati
a randellate e abbandonati nei campi dietro il carcere
di Fornelli. Chi è stato a ridurli così
visto sull'Isola
non c'è nessuno? A chi giova che il Parco non abbia
in dotazione dei mezzi propri ma debba noleggiarli profumatamente
una ditta esterna? Domande senza risposta, come tante
altre... ma che mi fanno incazzare tanto..."
Da apprezzare la professionalità
della nostra guida Paola, la pazienza dell’autista del
bus Simone nonché la grandiosità di Bruno
“Amici della Terra” che durante tutto il percorso - da
Cagliari a Stintino - ci ha rapiti tutti con la storia
passata e recente dell'Isola dell'Asinara. A tutti un
grande GRAZIE
IL
CARCERE DELL’ASINARA E LA SUA LUNGA STORIA
L’isola dell’Asinara diventa
una colonia penale nel 1885, stesso anno in cui viene
istituito anche il Lazzaretto. Il modello ispiratore era
quello della colonia penale agricola dell’isola di Pianosa,
nata nel 1858.
Furono espropriati i terreni
e i fabbricati di 500 isolani, per organizzare il carcere
in insediamenti residenziali, detti anche “diramazioni”.
A proporre il disegno di legge fu l’allora ministro dell’Interno
Agostino De Pretis, che riteneva il carcere un’utilità
per il governo e per i detenuti. Il governo, facendo lavorare
i detenuti sull’isola, non avrebbe dovuto inviare del
personale per la costruzione del lazzaretto, e i detenuti
avrebbero potuto condurre una vita più attiva,
secondo le parole di De Pretis: “…si era riconosciuto
conveniente l’impianto di una colonia di coatti, dei quali
molti si hanno sempre relegati in località in cui
manca assolutamente il modo di occuparli al lavoro…e che
pure ad essi si ravviserebbe conveniente trovare produttivo
impiego”.
Alla fine del 1888 nella colonia dell’Asinara si trovavano
254 detenuti.
Il 25 giugno 1971 sbarcarono
all’Asinara 15 presunti mafiosi. Inviati dapprima in soggiorno
obbligato a Filicudi, in seguito alle proteste dei 250
abitanti dell’Isola vengono destinati dal Ministero di
grazia e Giustizia all’Asinara, sede di una colonia penale
agricola. Tra questi primi quindici mafiosi ci sono Antonino
Bucellato, Tommaso Scaduto, Gaetano Badalamenti, Giacomo
Coppola, Rosario Terrasio.
La
decisione ministeriale è una doccia fredda per
il giovane Comune di Porto Torres, sotto la cui giurisdizione
territoriale ricade l’Asinara, da anni interessato a chiederne
la sdemanializzazione, essendo l’isola sotto l’aspetto
giuridico-istituzionale di proprietà del Ministero
di Grazia e Giustizia.
Porto Torres in quegli anni è sede dell’industria
petrolchimica e i territori ceduti a questa hanno privato
il Comune di spazi su cui far convergere l’espansione
turistica.
Il turismo è un investimento
trainante in Sardegna e l’Asinara rappresenta lo sblocco
naturale del suo sviluppo, ma non appena si viene a sapere
che la colonia penale ospiterà i 15 presunti mafiosi,
è per tutti chiaro che lo svincolo dell’Isola è
un obiettivo che si allontana.
Ad aggiungersi ai 15 personaggi
sospettati di appartenere alla mafia siciliana, di avere
legami con la criminalità organizzata, a settembre
si aggiungono altri 18 nomi tra cui Giuseppe Brusca e
Gaetano Riina portando a 35 i soggetti a domicilio coatto.
Ma a metà degli anni
’70 non è più solo il soggiorno dei mafiosi
a rendere l’Isola inquietante, è stata infatti
considerata adatta ad accogliere i detenuti più
difficili e ribelli, e così il 13 maggio 1977 arriva
Renato Curcio, capo storico ed ideologico delle Brigate
Rosse; già evaso nel luglio 1975 dal carcere di
Casale Monferrato.
Anche la direzione del carcere in questi anni è
cambiata: al dott. Napodano è subentrato Luigi
Cardullo, siciliano,
non ancora quarantenne che dirigerà l’Asinara per
otto anni, gli anni del supercarcere appunto, e da subito
si conquista la fama di duro. Col tempo si scoprono le
condizioni in cui vivono i detenuti “…sono a tre a tre,
in celle di quattro metri per due metri e cinquanta…”
- La Nuova Sardegna, 2 ottobre 1977.
La corrispondenza in arrivo
ed in partenza dei detenuti viene controllata e sottoposta
a censura. Spesso vengono sequestrati giornali, libri,
foto dei familiari e documenti. Gli spostamenti del detenuto
dalla cella vengono ridotti al minimo. Aumentano le perquisizioni
personali ed in cella. Gli istituti e le sezioni speciali
sono dotati di maggiori sistemi di sicurezza (cancelli,
mura, maggior presenza di agenti penitenziari) rispetto
alle altre tipologie di carceri poiché sono appunto
creati per internare detenuti particolari che hanno tentato
più volte l'evasione o che hanno commesso atti
di ribellione durante precedenti periodi di detenzione.
Gli anni ’70 saranno i peggiori
della storia del carcere dell’Asinara. Il clima di tensione
dei detenuti, le violenze tra loro e verso le guardie,
portano anche i direttori del carcere a prendere provvedimenti
sin troppo drastici. Nel 1976 l’allora direttore del carcere
Luigi Cardullo ordinò agli agenti di sparare contro
un turista svizzero che aveva inavvertitamente oltrepassato
il limite dei 500 metri imposto dalla capitaneria.
Nel 1978 arriva l’occasione,
per il Ministero di Grazia e Giustizia di accertare se
sia vero che alcuni detenuti vengono trattati come sepolti
vivi, con una manifestazione pacifica guidata da cinque
carcerati appartenenti all’estrema sinistra, contro l’installazione
dei vetri divisori spessi un dito che rendono impossibili
i colloqui.
La protesta viene repressa
con pestaggi e violenze, la notizia degli incidenti rimbalza
a Roma dove viene disposta una ispezione al penitenziario
e una visita di alcuni Parlamentari che, al loro ritorno,
rilasciano un’intervista dove descrivono una “situazione
esplosiva”.
Arriverà, di lì
a poco, un documento al settimanale ‘‘Panorama’‘ attribuito
a Renato Curcio a Alberto Franceschini in cui la chiusura
dell’Asinara è indicata come uno degli obiettivi
che le Brigate Rosse devono conseguire. Le Brigate Rosse
si muovono nella direzione indicata: il 24 settembre 1979
a Roma, durante un sopralluogo la polizia è oggetto
di una sparatoria da parte degli occupanti di una Giulia
blu. Tra i feriti vi è uno dei banditi e nella
sua 24 ore viene ritrovata la documentazione relativa
a un piano d’evasione dall’Asinara di circa 80 detenuti.
La sera del 2 ottobre i detenuti
del ramo di Fornelli insorgono, cogliendo di sorpresa
le guardie , feriscono un agente e, dopo che si riesce
a far scattare l’allarme, si scatena una violenta battaglia.
Il braccio di sicurezza viene circondato dalle forze dell’ordine,
mentre i rivoltosi smantellano le celle, devastano la
costruzione con caffettiere ad esplosivo di cui sono misteriosamente
in possesso.
All’alba del 3 ottobre la
ribellione viene sedata con il ricorso di gas lacrimogeni.
Le richieste vengono parzialmente accolte (cioè
il trasferimento degli insorti) e la ricostruzione in
tutta fretta del carcere darà luogo a un’inchiesta
da cui scaturirà un non previsto processo.
Poiché i lavori nel
supercarcere devono essere fatti alla svelta, il Generale
Dalla Chiesa è interessato più a ripristinare
l’ordine di sicurezza che non a controllare fatture e
preventivi, e legittima che dell’intera organizzazione
sia responsabile Cardullo. Ma qualcosa a un certo punto
nel funzionamento non convince, a novembre del 1980 il
direttore viene trasferito a Perugina con un provvedimento
le cui ragioni non sono del tutto chiare.
La magistratura sassarese
inizia così un’indagine sui lavori di ristrutturazione
di Fornelli perché il successore di Cardullo non
avvalla le fatture che quest’ultimo gli ha lasciato.
Nel luglio del 1981 le comunicazioni
giudiziarie raggiungono le imprese approdate all’Asinara,
funzionari del Genio Civile, il comandante del ‘‘Cantiello’‘
il motoscafo che assicura i collegamenti tra Porto Torres
e l’Asinara, Cardullo e sua moglie Leda Sapio. Tutti coinvolti
in un giro di tangenti a
appalti truccati. A metà dicembre del 1982 i coniugi
Cardullo finiscono in carcere l’uno a Tempio e l’altra
a Sassari.
Nel processo che vede dieci
imputati e i due coniugi ormai l’uno contro l’altra, quella
che emerge è una squallida storia di arroganza
e corruzione, di pagamenti in gioielli che risultano poi
essere falsi, di accuse e voci di adulterio. Una storia
nella quale Cardullo a un certo punto chiama in causa
i servizi segreti, asserendo di essere stato da questi
reclutato sin dal 1973, di aver per loro intercettato
le conversazioni dei detenuti, di aver violato la legge
continuando, nonostante ciò, a svolgere le funzioni
di direttore. Insomma di corruttori e corrotti che si
chiude con la sentenza del 31 luglio 1987, che riconosce
il peculato e la truffa e commina le pene più gravi
all’ex direttore e a sua moglie.
Quando avviene il processo
e la condanna dei coniugi Cardullo, Fornelli, come sede
del supercarcere, non esiste più. Il 12 dicembre
dello stesso anno le Brigate Rosse rapiscono a Roma il
giudice Giovanni D’urso, consigliere di Cassazione e tra
le richieste per la sua liberazione vi è la chiusura
del braccio speciale di Fornelli. I vertici dello Stato
cercano strade diverse alla trattativa e a fine anno scatta
per l’Asinara ‘‘l’ora zero’‘. Tutti i detenuti che si
trovano ancora nel bunker vengono trasferiti con destinazione
ignota. Apparentemente la chiusura è avvenuta,
il braccio ormai deserto di Fornelli ospiterà per
un breve periodo nel 1983 Raffaele Curcio, capo della
camorra napoletana.
Nel
1983 il braccio destro del carcere Fornelli ospita per
un breve periodo Raffaele Cutolo, capo della camorra napoletana.
Il 1° settembre 1986 scappa dal carcere
L’attenzione per l’isola
si riaccende quando il 1 settembre del 1986 avviene il
primo tentativo di fuga riuscito: Salvatore Duras e Matteo
Boe evadono dal carcere dopo aver tramortito una guardia.
Scattano le ricerche, e il ritrovamento di un gommone
abbandonato al largo dell’Asinara fa intuire che i due
sono già lontani. Il gommone era guidato da Luisa
Manfredi, moglie di Matteo Boe, che troverà rifugio
in Corsica dove verrà in seguito arrestato. Matteo
Boe, 28 anni, originario di Lula, era detenuto per il
sequestro di Sara Niccoli e all'epoca della fuga non era
ancora molto famoso (avrebbe finito di scontare la pena
nel 2002). Lo diventerà dopo, partecipando al sequestro
di Farouk Kassam nel 1992.
La permanenza all’Asinara
doveva stargli stretta, e così decise di evadere
dal carcere con Salvatore Duras, in carcere per furto.
Studiano un piano a tavolino che poi risulterà
perfetto. Dopo aver tramortito una guardia, i due riescono
a raggiungere la costa in una cala dove una donna li aspetta
nascosta a bordo di un gommone. La ragazza, Laura Manfredi,
emiliana, aveva conosciuto Matteo Boe all’università.
Duras fu trovato poco tempo dopo. Boe, invece, riuscì
a restare latitante, nascondendosi in Corsica, per sei
anni.
Ma i detenuti che hanno cercato
di fuggire dal carcere dell’Asinara sono stati tanti.
La vicinanza dell’isola alla punta della Sardegna dava
l’impressione che fosse facile, una volta riusciti ad
eludere le guardie costiere, scappare
a nuoto. In realtà non era né tanto semplice
sfuggire alle guardie, perché i controlli avvenivano
sia di giorno che di notte su tutta la costa, né
poi era semplice buttarsi a mare e sbracciare sino alle
coste sarde. C’erano infatti le correnti, violente e inarrestabili,
che impedivano una tranquilla nuotata verso la libertà.
Sono stati tanti i carcerati
trovati morti annegati, recuperati giorni dopo la scoperta
della loro fuga. È stato trovato morto anche un
detenuto che cercava di raggiungere la Sardegna con una
barchetta a remi. Dopo giorni e giorni in balia delle
correnti, era morto di inedia. Solo uno, un bandito sardo,
riuscì a organizzare una fuga intelligente e meditata.
Si nascose in una grotta nell’isola. Aveva con sé
viveri e una barca, nascosta. Stette un mese dentro la
grotta aspettando di poter scappare con la barca, guardie
e correnti permettendo. Lo trovarono gli agenti penitenziari
scorgendo nel terreno vicino alla grotta delle orme. Le
sue.
Le altre vicende dell’Asinara
sono il recente soggiorno di Salvatore Riina, prima che
la chiusura del carcere e l’istituzione del Parco naturale
divengano finalmente realtà il 27 dicembre 1997
a seguito dell’emanazione della legge quadro sulle aree
protette n. 394 del 6 dicembre 1991.
LE DIRAMAZIONI CARCERARIE
Cala d’Oliva era una delle principali diramazioni del
carcere dell’Asinara. Oltre a una struttura carceraria,
era l’unica parte dell’isola ad essere abitata. Qui avevano
casa, infatti, le famiglie delle guardie carcerarie, e
così attorno al carcere gravitava una piccola cittadina.
Il
carcere dell’Asinara era diviso in diverse diramazioni
per dei motivi precisi. Ciascuna diramazione era una sorta
di piccolo carcere, formato da sobri dormitori alloggi,
dalla caserma delle guardie, da locali di servizio e da
stalle per gli animali.
Ognuna aveva un suo nome
e una sua tipologia, sia per quanto riguarda la sicurezza
che per il tipo di vita che i detenuti potevano condurre
in base alla loro pena.
Così Fornelli, la struttura carceraria che si trova
nella punta Sud dell’isola, era, assieme al carcere di
Cala d’Oliva quello più sicuro. Qui venivano rinchiusi
i detenuti più pericolosi e, durante gli anni ’70,
i mafiosi (Totò Riina fu rinchiuso in un bunker
in cima al colle su cui è costruita Cala d’Oliva).
A Fornelli, infatti, c’erano le celle di massima sicurezza
e i cortili chiusi anche sopra la testa da una rete metallica.
A Santa Maria, invece, che da lontano, con i due xilos
che sbucano dall’apertura interna, sembra una enorme fattoria,
stavano i carcerati meno “pericolosi”, che lavoravano
la terra e avevano una maggiore libertà di movimento.
Nella isolata diramazione
di Tumbarino (quando l’Asinara era una colonia penale
serviva ad accogliere
solo 15 condannati per il periodo necessario per l’approvvigionamento
di legna e carbone, essendo la zona priva di terreni coltivabili)
erano rinchiusi i pedofili, lontani da tutte le altre
strutture e privi di qualsiasi anche piccola agevolazione.
Gli altri “settori” della struttura carceraria erano Campu
Perdu, Elighe Mannu, Trabuccato. Ma la struttura centrale
era Cala Reale, chiamata così perché ospitava
l’approdo e le strutture di accoglienza dei Savoia. Da
qui partivano tutti gli ordini e si eseguivano tutte le
operazioni di routine, compreso quella di smistare la
posta per i detenuti.
LE TESTIMONIANZE
Due testimonianze: un uomo ed una donna ricordano il primo
impatto con un carcere speciale (le testimonianze sono
tratte da "Massima sicurezza - Dal carcere speciale
allo stato penale." di Salvatore Verde Odradek ed.2002
“La mia destinazione era una piccola costruzione, bassa,
che le guardie chiamavano pollaio perché vi aveva
tenuto le sue galline la moglie del direttore: quattro
celle strettissime, seminterrate, con la finestra dalla
quale, nei giorni di pioggia, entrava l'acqua a torrenti.
Una porta bassa, da pollaio, appunto, che potevi superare
solo abbassandoti. In tutto quattro metri per tre. Dovevamo
viverci in quattro, su due letti a castello e, come unico
mobilio, un tavolino fissato al pavimento e quattro sgabelli”.
I contenuti del carcere duro consistevano in una strategia
volta a raggiungere il doppio obiettivo di isolare ermeticamente
l'internato e di incidere, contemporaneamente, sui livelli
di vivibilità dello spazio detentivo, al fine di
lavorare ad una graduale frantumazione dell'identità
politica dei singoli soggetti.
Il primo obiettivo veniva perseguito attraverso la censura
sulla corrispondenza, pesanti limitazioni nei rapporti
con la famiglia (colloqui e comunicazioni telefoniche),
impossibilità di accesso ai mezzi di comunicazione
di massa (stampa e radio/televisione).
All'impermeabilizzazione con la società esterna
si abbinava un mix discrezionale di azioni di appesantimento
della condizione detentiva: rigida separazione in reparti
e/o istituti speciali; totale isolamento comunicativo
con gli altri reclusi; graduale e progressivo impoverimento
delle condizioni materiali di vita, con riduzione delle
ore d'aria, della possibilità di ricevere pacchi
e di acquistare generi alimentari.
Se questi sono i contenuti normativi del regime speciale,
le pratiche repressive concrete che esso ha permesso sono
andate molto al di là di quanto si possa immaginare.
La letteratura
sull'argomento è abbastanza estesa da permettere,
anche ai più pigri, di conoscere cos'è stato
il carcere speciale nel nostro paese in quegli anni. Oltre
ai pestaggi, alle disumane condizioni di vita, all'isolamento
in cui erano tenuti i reclusi, ciò che indigna
ancora di più la coscienza civile e la sensibilità
sono le pesanti conseguenze che ricaddero sui familiari
dei detenuti, espressione di una logica di rappresaglia
indegna anche della più flebile concezione democratica
dello Stato.
Partire da Milano, Torino, Firenze, Roma o Napoli per
raggiungere l'Asinara e vedersi rispediti indietro senza
aver potuto incontrare il proprio congiunto perché
ci si è rifiutati di sottoporsi all'umiliazione
di una perquisizione corporale, è un'esperienza
che tutte le donne che hanno avuto qualcuno in carcere
per lotta armata hanno vissuto…
Quella delle perquisizioni
corporali ai familiari è stata la più odiosa
ritorsione che poteva essere immaginata. Le pratiche della
repressione penetrano fin dentro al corpo, violano l'intimità
fisica dei propri affetti, affermando un principio di
potenza che non conosce confini invalicabili.
“Da parte mia e da parte
della maggioranza di noi c'è sempre stato il rifiuto
delle perquisizioni vaginali. Con noi che eravamo "le
giovani" andavano pesanti, non si limitavano a farci
spostare il reggiseno, ma a denudarci come vermi. Ci costringevano
a spogliarci e a fare flessioni; mentre alle perquisizioni
vaginali sono riuscita ad oppormi, le flessioni completamente
nuda ho dovuto farle perché altrimenti non mi avrebbero
fatto fare il colloquio”.
Affermazione della penetrabilità del corpo, violazione
della sua sacralità, negazione radicale della sua
integrità. All'esercizio del potere di controllare,
visionare, ispezionare i corpi, corrisponde la più
assoluta negazione della fisicità dell'affettività.
“Prima a Cala d'oliva i colloqui
li facevamo in un posto tremendo ma almeno senza vetro.
A Fornelli, trenta chilometri al di là dell'isola,
ci installarono i vetri ed i citofoni. E' stata una cosa
da non raccontare. Il non potersi toccare, il sentire
questa voce distorta e metallica. Fu una delle invenzioni
più cattive. In un rapporto c'è il problema
dei corpi, del bisogno del contatto fisico che il carcere
censura di per sé, ma il vetro fu la fine della
possibilità di toccarsi una mano, di sentirsi vicini.
Fu orribile, inimmaginabile...
Si è trattato di una vera e propria logica di guerra,
attuata attraverso la più drastica recisione di
ogni possibilità di contatto del recluso con la
propria realtà sociale ed affettiva. Al contempo,
veniva diffusamente utilizzata tutta la strumentazione
classica di distruzione dell'identità, attraverso
il perseguimento di una strategia di annientamento dell'integrità
psico-fisica degli individui.
Ma non solo. Il carcere duro costituiva anche una formidabile
arma di governo per gli altri due circuiti penitenziari,
rappresentando la possibilità concreta, visibile,
di peggioramento della condizione detentiva, un inferno
a portata di mano dove si poteva piombare in qualsiasi
momento.
L'ermetica compattezza che il quadro politico dell'epoca
oppose ad ogni tentativo di critica a questa oscenità
rese possibili amplissimi margini di discrezionalità
all'Amministrazione Penitenziaria nel gestire, in spregio
ad ogni pur minimo vincolo normativo, le situazioni delle
carceri speciali.
Le esigenze della prevenzione generale qui prevalsero
nettamente, senza alcuna possibilità per argomentazioni
di civiltà giuridica, di proporre una loro legittimità
di parola. Si trattava della prioritaria necessità
di distruggere ad ogni costo le reti organizzative dei
gruppi della lotta armata e, in ragione di questa esigenza,
il carcere
divenne una delle risorse decisive della strategia di
riconquista del controllo del territorio.
In questo contesto il carcere, da strumento terminale
del controllo penale, assume importanti funzioni di intervento
operativo dell'azione repressiva. Ad esso è attribuito
il compito di contrastare in prima linea questa
particolare forma di <<devianza>>, dai forti
contenuti organizzativi, strategicamente orientata oltre
ogni mediazione, con una notevole capacità egemonica.
E lo fa espandendo al massimo l'effetto di deterrenza
con l'aumento delle pene, dilatando in progressione i
contenuti afflittivi, separando ed isolando l'internato
dall'ambiente esterno. Da questa logica di guerra nasce
in questi anni un altro formidabile strumento di aggressione
penale, che si insedierà stabilmente nel nostro
sistema repressivo, e che con il carcere ha sicuramente
qualcosa a che vedere: il pentitismo.
Le foto più
belle sono di Dietrich Steinmetz. Spontaneamente mi ha
lasciato la sua portentosa macchina fotografica. L'ho
visto impallidire per poi riprendersi alla consegna del
suo prezioso oggetto. Grazie mille Dietrich Steinmetz!
Tratto da: "Massima
Sicurezza - Dal carcere speciale allo stato penale"
Salvatore Verde - Odradek ed. 2002 LIBRI
SUL CARCERE DELL’ASINARA:Cassitta
G. e Spanu L. “Supercarcere Asinara. Viaggio nell'isola
dei dimenticati” Frilli Editori - Cassitta G. “Asinara,
il rumore del silenzio”. |
Ivana Taccori
27
maggio 2007
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