Alla partenza Stefano
Baldini guida i 3.500 italiani da Staten Island
a Central Park.
Sbuffando su e giù verso il traguardo:
Salite, fatica e la gioia finale: così
si corre nella Grande Mela
NEW
YORK
Dalla
Sardegna, con amore, all'appuntamento
con la corsa più amata sui 42,195 km
Come una mamma amorevole che vuole
intimorire un bimbo disobbediente, New York prova
a fare la faccia brutta. Il tempo è improvvisamente
cambiato nella città che domenica accoglierà
trentottomila maratoneti di ogni nazione del mondo:
vento gelido e temperature precipitate, in pochi
giorni, verso gli standard autunnali. Un po’ quello
che
è accaduto la scorsa settimana in Sardegna,
potranno pensare gli oltre sessanta sardi (un
centinaio se si contano gli accompagnatori), che
ieri hanno raggiunto Manhattan. LA MEDAGLIA. Per
tutti, debuttanti e habituée, il tempo
sarà l’ultimo dei pensieri. O almeno quello
meteorologico, perché a quello cronometrico
qualcuno starà molto attento. Anche in
una maratona nella quale, tradizionalmente, il
livello di competizione è piuttosto sfumato.
Pochi sono i top runners, molti gli amatori, moltissimi
i principianti. Tanto che, sui quasi quarantamila
(ufficialmente 37 mila e rotti) che affrontano
i canonici 42,195 chilometri, una piccola ma significativa
percentuale di podisti si accontenterà,
per lunghi tratti, di camminare. Daltronde, quella
di New York è molto più (o molto
meno) che una gara di corsa. Somiglia più
a una sfida: con gli amici, con gli avversari,
con se stessi. Raggiungere quel traguardo è,
in fondo, l’unica cosa che conta. Come? Dettagli.
In che condizioni? Bazzecole. Ciò che veramente
importa e che, giunta sera, si possa chinare il
mento e guardare quella medaglia appesa al collo
con la commozione che si riserva a un neonato.
Central Park: Carlo Alberto
e Vanessa in allenamento
IL
PERCORSO
Prima
di poter raggiungere, stanchi ma felici (molto
di entrambe le cose), l’albergo, però,
ci sono da attraversare i cinque borough di New
York. Il tracciato è temuto da tutti, campioni
o tapascioni, perché è pieno zeppo
di insidie. Saliscendi continui, alternanza di
caldo e freddo, vento. Difficoltà che si
aggiungono, per i meno veloci alla festosa, ma
pericolosa confusione che regna nella "pancia"
del gruppo, dove si corre gomito a gomito, dove
il rischio di inciampare è costante e la
bolgia dei ristori è quasi una tradizione.
In realtà il percorso si divide tra Brooklyn
(50 per cento) e Manhattan (40), con la partenza
a Staten Island e fugaci passaggi nel Queens (poco
più di due chilometri) e nel Bronx (meno
di due). Alcuni dei tratti più celebri,
poi, non sono in nessun quartiere. I cinque ponti
rappresentano momenti chiave della corsa. Soprattutto
uno: il Queensboro Bridge, che porta a Manhattan,
è il più odiato. Per raggiungere
il centro dell’East River c’è una salita
di un miglio, in gran parte all’ombra, con un
vento gelido che sale dal fiume. E quando si scollina,
con il muscoli delle cosce in fiamme, mancano
ancora 17 chilometri alla fine.
I
CAMPIONI
È lì che Stefano
Baldini comincia a tremare. Il campione olimpionico
ed europeo, che torna nella Grande Mela un anno
dopo il sesto posto del 2006, sa che nella discesa
verso la First Avenue gli africani imprimono un
cambio di ritmo violento. Tanto da rimanerne loro
stessi vittime, talvolta. Seguirli? Lasciarli
andare? In entrambi i casi il rischio di perdere
la gara è concreto. La prova dei "grandi"
è entusiasmante (Eurosport la trasmetterà
in diretta domenica dalle 15,15) proprio perché
imprevedibile sino all’ultima "gobba"
di Central Park, dove la folla a bordo strada
raggiunge un livello da stadio di calcio. L’anno
scorso il brasiliano Dos Santos ci arrivò
in beata solitudine: sarà lui a partire
con la tabella numero 1. Su quella di Baldini
(come di altri tra i 3.500 italiani), invece,
ci sarà un messaggio dell’associazione
"Nessuno tocchi Caino" per sostenere
la richiesta italiana di moratoria internazionale
della pena di morte.
DALL’ISOLA
Quello di dare messaggi è quasi un obbligo
a New York. Un anno fa i sardi corsero nel nome
di Titti Pinna, chiedendo la sua liberazione.
Fu "Zigheddu", al secolo Francesco Calledda,
a promuovere questa dedica. È lui il decano
dei maratoneti sardi, una sessantina quest’anno
al via dal ponte Giovanni da Verrazzano. Il gruppo
si è assottigliato rispetto alla scorsa
edizione, ma resta bene nutrito ed eterogeneo,
visto che tutte e otto le province saranno rappresentate.
GLI
ISCRITTI
Giancarlo Acca (Cagliari, 33
anni), Salvatore Addari (Simaxis, 47), Sergio
Alfonso (Alghero, 46), Rossana Allieri (Cagliari,
45), Simone Alterio (Lanusei, 33), Carlo Balconi
(Cagliari, 57), Gianfranco Bassu (Olbia, 49),
Michele Biggio (Cagliari, 56), Jacopo Salvatore
Bulla (Muravera, 18), Stefano Cabula (Oristano,
38), Francesco Calledda "Zigheddu" (Aritzo,
69), Enrico Cambuli (Cagliari, 53), Paolo Cardia
(Burcei, 39), Erasmo Caria (Alghero, 66), Ottavio
Carta (Oristano, 56), Marco Casu (Oristano, 38),
Salvatore Casu (Cabras, 42), Andrea Cauli (Cagliari,
45), Antonio Cingolani (Capoterra, 42), Camillo
Cogoni (Aritzo, 47), Renato Daga (Aritzo, 49),
Benedetto Deriu (Capoterra, 47), Paolo Fadda (Villa
San Pietro, 57), Danilo Fadda (Villa San Pietro,
31), Gian Luigi Falchi (Portotorres, 33), Riccardo
Falchi (Portotorres, 32), Ennio Fanari (Sinnai,
54), Sergio Fantini (Cagliari, 35), Vitaliano
Frau (Mogoro, 48), Pierpiorgio Frau (Cagliari,
33), Sergio Fulgheri (Santadi, 49), Andrea Ghiani
(Oristano, 38), Mathias Grandi (Alghero, 27),
Pietrino Ibba (Cagliari, 52), Silvestro Ibba (Aritzo,
48), Aladar Bruno Janes (Villa San Pietro, 51),
Marco La Luce (Cagliari, 40), Andrea Loi (Aritzo,
50), Riccardo Lupino (Alghero, 53), Mauro Lupino
(Alghero, 19), Sergio Mameli (Selargius, 53),
Carlo Alberto Melis (Cagliari, 39), Paolo Meloni
(Oristano, 35), Mauro Merella (Cagliari, 35),
Alessandro Merici (Cagliari, 43), Gianluca Mogni
(Muravera, 31), Gavino Felice Murrighile (Olbia,
39), Andrea Oggiano (Sassari, 54) Antonio Perseu
(San Basilio, 47), Giovanni Perseu (San Basilio,
50), Salvatore Piga (Tempio, 44), Silvestru Pisu
(Zeddiani, 44), Gianluca Quarta (Oristano, 37),
Pier Paolo Ragatzu (Monserrato, 58), Mariuccia
Rossini (Villa San Pietro, 49), Paolo Nicola Schirru
(Selargius, 56), Anselmo Serreli (Capoterra, 40),
Costanzo Solinas (Sassari, 49), Serena Taccori
(Cagliari, 39), Mauro Tidu (Mogoro, 45), Alberto
Trova (Alghero, 20), Bruno Useli (Selargius, 45),
Maurizio Vettorazzo (Sassari, 55), Nazario Zucca
(Cagliari, 65).
«Quando
Lance Armstrong ci superò»
L’abbigliamento
giusto: Canottiera e maglietta, poi via sulle
strade della Big Apple
La
maratona più famosa del mondo NEW YORK.
La medaglia è bella, bellissima con il
suo nastro blu e arancio e il bassorilievo che
raffigura due podisti al traguardo, sullo sfondo
dei grattacieli. Indossarla pochi metri dopo l’arrivo
in Central Park, riguardarla, tenerla addosso
per le strade di New York, tra gli sguardi ammirati
della gente: questo è, in gran parte, ciò
che giustifica la grande fatica che hanno fatto
i quasi quarantamila partiti ieri mattina dal
ponte intitolatao a Giovanni da Verrazano. Molti
mentre scrivo stanno ancora lottando, altri addirittura
saranno ancora sulla strada quando il giornale
sarà in rotativa. Per loro ci sarà
ancora il pubblico che, anche ieri, è stato
il protagonista assoluto lungo i 42 chilometri
più ambiti dai podisti di tutto il mondo.
New York ha vissuto la sua maratona, festosa,
nonostante si sia corsa anche in memoria di Ryan
Shay, l’americano morto durante il trials per
Pechino 2008, sabato mattina in Central Park e
ricordato con un minuto di silenzio (silenzio,
non applausi). Per l’America che corre, dopo i
morti di Washington e Chicago, un altro segnale
di un anno orribile. Ma lo show deve andare avanti
e, alle 9,30, siamo già schierati, implotonati
in griglie da mille persone, stabilite (con qualche
eccezione) sulla base del valore degli atleti.
Ogni istante di una giornata infinita, cominciata
con la sveglia alle cinque (e meno male il ritorno
all’ora legale ci ha regalato la seconda ora di
sonno in più nel giro di una settimana),
è memorabile. Si arriva a Staten Island,
sede di partenza, in pullman tre ore prima del
via, perché alle 7 il ponte viene chiuso
e nessuno può più passare. L’attesa
è scomoda, le file per depositare la borsa
con gli effetti personali nei camion che l’Ups
porta all’arrivo, diventano a mano a mano più
lunghe. La gente dorme in terra, sul prato, sui
marciapiedi, nelle tre grandi tende allestite
dagli organizzatori. Non fa freddo, c’è
il sole, la giornata è ideale per correre
e molti scelgono la canottiera come indumento
di gara. Almeno
tra i più veloci. Chi prevede di stare
sul percorso quattro o cinque ore preferisce non
rischiare. Gli sbalzi di temperatura sono improvvisi
e violenti; subire un raffredamento può
essere scomodo e pericoloso. Io opto per una via
di mezzo, mettendo sotto la canottiera una maglietta
sottile e aderente. Scelta che si rivela giusta.
Meno giusta quella di partire fortissimo, alla
ricerca di un tempo da ricordare a lungo. Un’ambizione
naufragata già a un terzo di gara, che
non cancella l’esperienza fatta. E, sulla First
Avenue, mi ha fatto piacere passare l’ideale testimone
di migliore tra i sardi, ad Andrea Ghiani, cuoco
trentottenne giunto da Oristano per una giornata
di gloria. Per entrambi, proprio sul quel rettilineo
dove la gente fa un frastuono continuo e infernale,
anche il brivido di essere raggiunti e superati
da Lance Armstrong. L’americano stavolta ha corso
senza la telecamera davanti, più libero
e più sciolto. Sognavo di batterlo, ma
ha approfittato della mia crisi come faceva con
i rivali quando correva il Tour de France, vinto
sette volte di fila. Ho provato a corrergli sui
talloni per duecento metri, poi ho deciso che
le mie gambe già malridotte non meritavano
di essere ulteriormente bistrattate. Ma l’emozione
è stata forte, anche se altri atleti me
ne hanno date di più intense. Soprattutto
i disabili: ne segnalo due. Sul tremendo ponte
di Queensboro, due atleti
africani, passo agile, polsi legati con una cordicella
e scritta inquivocabile: Seeing is believing,
vedere è credere. Non so chi dei due fosse
cieco, so che andava forte. L’altra sulla discesa
verso il Bronx: un uomo su una carrozzella, l’espressione
contratta dalla fatica e da una di quelle malattie
che minano la dignità dell’uomo. Spingeva
la carrozzella, in senso contrario, con due gambette
malferme. La gente applaude tutti, ma alcuni li
incita in modo talmente coinvolto da sembrare
perfino eccessivo. Quest’anno io ho corso con
una maglia azzurra con uno scudetto tricolore
e il nome scritto bene in grande sul petto. Un
successo. Correvo e sentivo la gente chiamarmi
per nome, gente di ogni nazione, non solo italiani.
Qualcuno sembrava conoscermi, essere lì
apposta per me, tanto le sue parole erano dirette
e sentite. Mi voltavo, credendo di trovare una
faccia amica, ma erano perfetti sconosciuti. Così
New York rinnova la sua magia, così può
far sentire importante anche chi ha dovuto correre
metà gara con i muscoli doloranti, il terrore
di crampi e il morale sotto i tacchi. Per questo
tagliare il traguardo sembra sempre un gesto da
dedicare anche ad altri, oltre che a se stessi.
E io, nel mio piccolo, ho voluto dedicarlo a un
giovane amico, Mario, che oggi ha tagliato il
traguardo dei 25 anni. Ultimamente non se l’è
passata bene, ma anche lui ha lottato con coraggio
per poterci arrivare. È la sua medaglia,
splendente come quella della Maratona di New York.
Il racconto della maratona più celebrata
del mondo, dalla sveglia prima dell’alba fino
all’arrivo.
La vincitrice Paula Radcliffe avvolta nella bandiera
inglese.
Dal Poetto
(Cagliari) di corsa alla Grande Mela
Il pm, il consigliere,
il veterano: storie di sudore e felicità
Chi
sono i cento sardi ai nastri di partenza della
più spettacolare manifestazione podistica
del mondo
C’è un altro
modo per andare a vivere l’emozione della maratona
di New York. Non è necessario correre,
perché attendere il passaggio a bordo strada
può racchiudere gli stessi significati.
Così la pensa Anna Rita,
che un anno fa aspettava suo marito Camillo
Cogoni dietro una transenna di Central
Park, 400 metri prima di quella linea che sovrasta
i desideri di ogni podista. Le sarebbe piaciuto
correrla, stavolta, ma un’infiammazione glielo
ha vietato: «Non importa», sorride,
«perché stare tra il pubblico è
una cosa meravigliosa. Chi corre non si rende
conto di che razza di coinvolgimento ci sia degli
spettatori. Ho assistito a scene bellissime, ho
visto corridori arrivare al traguardo in lacrime,
per l’emozione o per la fatica.
Uomini sfiniti, sorretti dagli inservienti negli
ultimi metri o altri cercare il proprio bambino
tra il pubblico, caricarselo sulle spalle e portarlo
all’arrivo».
IMPIEGATO POSTALE. Eppure, anche per fare da spettatrice,
ha condiviso volentieri con il marito l’idea di
lavorare un anno intero per potersi permettere
la trasferta in America. Camillo, impiegato delle
poste di Ortueri, sarà l’unico residente
della Provincia di Nuoro (di cui è anche
consigliere) al via. Pur non essendo un campione,
nelle due precedenti esperienze ha sempre progredito.
Per certi versi si sente come i keniani, gli uomini
degli altipiani: «Mi alleno sempre sopra
quota mille metri di altitudine, correndo da solo,
nei boschi. Quando questa estate il Tavolata ha
effettuato la preparazione ad Aritzo, Pusceddu
mi ha chiesto di insegnargli il percorso e la
squadra andava a correre su quegli stessi sentieri».
ARITZO. Proprio Aritzo è il paese più
rappresentato, a dispetto dei suoi 1500 abitanti:
otto tra aritzesi doc e acquisiti, sono sbarcati
ieri, con il folto gruppo di Terramia. Non a caso
a guidarli c’è Francesco Calledda,
il leggendario Zigheddu, alla
settima partecipazione alla maratonadinuiork.
Il sessantanovenne pensionato ha un pensiero per
Pietro Cariello, morto un anno
fa, quando aveva già perfezionato l’iscrizione
alla gara: «Sette maratone, come lui. È
un grande onore».
SETTE VOLTE. Un onore da condividere con Mino
Caria, algherese, che nel 1988 disputò
per la prima volta la corsa dei cinque borough.
Tra i pluripresenti a New York, con cinque gettoni,
Andrea Oggiano, di Castelsardo,
che va per la sesta: «La più bella?
Quella del 2001. C’era appena stato l’attentato
alle torri gemelle. Uomini dell’Fbi dappertutto,
enormi camion con sacchi di sabbia contro le autobomba.
Eppure, mai come allora la partecipazione della
gente fu così calorosa».
I CENTO. New York è per molti un dolce
ricordo, per altri un miraggio. Esordienti e veterani
si mischiano nella carovana dei quasi cento sardi,
oltre sessanta dei quali saranno al via, emozionati
allo stesso modo, domenica mattina (le 16 in Italia)
dalla riva di Staten Island. Chi sul ponte da
Verrazano c’è già stato fa di tutto
per tornarci, anche se il prezzo è alto.
Terramia, il tour operator più celebre,
sebbene non l’unico, chiede oltre duemila dollari
per il pacchetto classico, che comprende tutto,
pasti esclusi.
TUTTO COMPRESO. Andare a New York per la prima
volta non è semplice. Partecipare ala maratona
presenta piccoli problemi logistici (soprattutto
gli spostamenti) che richiedono un dispendio di
energie che il maratoneta evita volentieri, se
c’è chi se ne occupa per lui. Tornando
agli esordienti, chi ama correre non
c’è posto dove vorrebbe cimentarsi nella
distanza di Maratona più di questo, almeno
una volta. «È come
con le donne», sorride Gianluigi
Falchi, che si cimenta sui 42,195 km
più famosi del pianeta per il terzo anno
consecutivo, senza aver mai provato altre maratone,
«Quando esci con Claudia Schiffer poi fai
fatica ad adattarti alle altre. E New York è
il massimo che c’è», conclude il
33enne imprenditore sassarese, presidente della
Silver Portotorres di basket (B1 maschile).
SCARPE DA CORSA. Al suo fianco, l’amico Riccardo
Falchi, 32, carabiniere a La Maddalena
ed ex ala-pivot del Sant’Orsola (B2), condivide
con lui la doppia passione per il canestro e le
scarpe da corsa. Si allena quando può,
talvolta, quando monta di guardia sull’isola di
Tavolara, percorre di corsa, con una torcia in
mano, i sei chilometri dell’angusto tunnel che
conduce da Punta Timone a Coda di Terra: «Sono
venuto l’anno scorso e mi è piaciuto moltissimo.
NEW YORK
La
corsa è come una malattia esantematica
Se
te la prendi da bambino è meglio, anzi,
finisce per rafforzarti. Tutto sommato è
una cosa naturale. Ma se il virus ti prende da
adulto, allora puoi star certo che sarà
in forma grave. Perché correre è
bello, ma competere è ancora più
seducente, soprattutto per chi non avrebbe mai
sospettato di potersi spillare sul petto un numero
e tagliare un traguardo. Trovarsi, giorno dopo
giorno, coinvolti negli allenamenti, negli appuntamenti
all’angolo della strada, nei gesti ripetuti, nei
tempi annotati prima mentalmente poi magari su
un quaderno, nell’organizzazione di trasferte,
produce una sensazione di ritrovata giovinezza
che - non si può negare - è spesso
ciò che una persona ricerca. Soprattutto
se in età giovanile non ha provato il brivido
dell’agonismo. Io sono tra queste persone e sono,
come altri sessanta e passa sardi, a New York
in pellegrinaggio. Per la seconda volta. Perché
questo non è un posto dove una simile sindrome
si possa sperare di guarirla. Tutt’altro. La voglia
di correre, di correre la maratona, distanza classica,
se non leggendaria, di farlo nella situazione
più confortevole, trova in questa città
la sua risposta più appagante. La maratonadinuiorc
è un evento unico e perché lo sia
diventata è subito intelleggibile appena
ti ci avvicini. Il che è molto diverso
dal guardarla in televisione o sentirne parlare.
I suoi ingredienti sono esplosivi perché
chi la organizza sa che ha per le mani un prodotto
vincente e come tale sa presentarlo, perché
la gente che la accoglie sa a sua volta sfruttarla
per ciò che è, cioè una grande
occasione per incassare del denaro, perché
chi la corre accetta di intepretarla come un grande
show, facendo la sua parte per garantirne la riuscita.
Stamattina (ieri, ndr), all’apertura del quartier
generale della Ing New York City Marathon, al
Jacob K. Javits Center, sulla riva dell’- Hudson,
Manhattan, l’atmosfera era già elettrica,
i partecipanti arrivati mercoledì sera
si sono messi in fila sorridenti ed eccitati per
ritirare il pettorale di gara, primo adempimento
di un cerimoniale organizzato nei minimi dettagli.
Per capirci, io ho preso la maglia ufficiale,
contenuta nel pacco gara (quello dove si trovano
i piccoli
omaggi dei tanti sponsor), e l’- ho misurata:
era grande e avrei voluto cambiarla. Ebbene, c’è
un banco dove un’addetta si occupa esclusivamente
di questo: cambiare le maglie agli atleti che
hanno sbagliato taglia. Perché nessuno
vuole che l’atleta sia imbronciato, contrariato
o deluso. Anche perché non è lo
stato d’animo ideale per entrare, dieci metri
più in là, nell’expò. In
questo padiglione tutto è allestito per
continuare a mungere i partecipanti, in preda
alla loro euforia newyorkese. È l’apoteosi
dello sport commerciale e turistico, quello nel
quale gli atleti non sono pagati, ma (a parte
alcune stelle) pagano anche per portarsi a casa
un souvenir ulteriore, rispetto alla medaglia
che si conquisteranno domenica a Central Park
e alle mille emozioni che vivranno. Ma è
per fissare meglio la memoria di queste ultime,
oltre che per esibire con orgoglio la partecipazione
alla maratonadinuiorc, che tanti spendono volentieri
tutti quei dollari. New York è sempre e
comunque unprivilegio.
C’è sempre tanto da scoprire a New York
e, anche se non corro per il cronometro, vorrei
cercare di andare sotto le quattro ore. Ma soprattutto
voglio battere Linus: mi sono rotto le p… di sentirlo
parlare dei fatti suoi alla radio!».
Se la corsa è
contagiosa,
al palazzo di Giustizia di Cagliari si è
diffusa un’epidemia negli ultimi anni.
Rossana Allieri,
45 anni, pubblico ministero, è "malata
grave" dal 2002, morbo contratto durante
una corsa campestre, campionato forense. A New
York, dove è già stata nel 2005,
festeggia la decima maratona. A vederla, bionda
e minuta, non si direbbe quale grinta nasconda:
«L’altra volta ho corso con un’ernia inguinale,
senza saperlo. Piangevo dal dolore ma il pubblico
mi ha trascinato sino al traguardo. Ho fatto Londra,
Berlino lo scorso 30 settembre, ma anche Roma
e Reggio Emilia e purtroppo devo dire che all’estero
la gente è un’altra cosa. Per questo ho
paura che non riuscirò mai a correre una
maratona a Cagliari».
LA GENTE. Il suo inseparabile compagno di allenamenti,
Nazario Zucca, annuisce. Perché
la gente è una componente fondamentale
di chi corre e ha bisogno di essere capito, sostenuto,
magari applaudito, come spiega Carlo Balconi,
avvocato cagliaritano, 56 anni, debuttante a New
York: «Ho scoperto la magia dell’applauso»,
spiega, «anche se il coraggio di correre
una maratona me l’hanno dato le parole di Pietro
Cariello, che mi è apparso un giorno all’improvviso,
durante una gara. Per me lui era l’angelo della
corsa».
IL FIGLIO. Di angeli, domenica, ce ne saranno
milioni sul percorso. Per guardare lo spettacolo,
d’accordo, ma soprattutto per fare la loro parte,
sostenendo in ogni modo i maratoneti. «È
quello che mi aspetto», dice Anselmo
Serreli, (Mino per tutti) uno dei tre
podisti di Capoterra al via, assieme ad Antonio
Cingolani e Benedetto Deriu,
«perché per me questi appuntamenti
sono soprattutto l’occasione d’incontro tra tanti
popoli diversi. Perciò ho portato mio figlio
Kevin, che ha 11 anni.Voglio trasmettergli questa
lezione, ma voglio che la impari senza che io
gli dica niente, soltanto rendendosene conto da
solo». Mino ha una piccola concessionaria
di auto e da sette anni risparmiava per coronare
il suo sogno: «La gente spende un sacco
di soldi in cose inutili, in vizi. Io non fumo
e non bevo, ma ogni giorno ho messo da parte qualche
euro come se lo facessi e finalmente eccomi qua».
69 ANNI. Se Zigheddu è il più
anziano, con i suoi splendidi 69 anni,
la palma del più giovane spetta invece
a Mauro Lupino, 19 anni e dieci
mesi, sassarese, studente di medicina. Fosse una
gara breve sarebbe l’uomo
da battere. Ma in maratona l’esperienza e la maturità
fisica contano più della freschezza atletica.
Poco importa, per lui e per gli altri New York
sarà comunque indimenticabile.
I SARDI
ALL’ARRIVO
La partenza della Ing New York City Marathon,
domenica scorsa dal ponte Verrazano-Narrows,
a Staten Island
Cinquanta hanno
tagliato il traguardo. Qualcuno ha impiegato
ben sei ore.
Dalla sveglia cinque ore prima del via alla
lunga fatica sino in Central Park
NYC MARAT H O N 2 0 0 7
La gara passa in secondo
piano. L’aspetto sportivo è sempre quello
meno rilevante a New York. Scompare
di fronte alle sensazioni di un’esperienza sempre
unica, sempre coinvolgente sul piano emotivo.
Tra i migliori sardi, Sergio Fulgheri,
da Santadi, non riesce a gioire: «La mia
dedica è per Armando Mandaresu,
che se n’è andato sabato, alla vigilia
della gara. Una persona straordinaria, un grande
podista, più volte campione d’Italia
master. Era il mio allenatore». «Sono
tornato per la terza volta, perché soltanto
qui puoi provare certe emozioni», sottolinea
l’aritzese Camillo Cogoni.
«Ci tornerò per la settima volta»,
assicura Paolo Cardia, da Burcei.
Paolo Ragatzu, alla settima
maratona del 2007, era alla quarta esperienza
a Central park: «Ma le emozioni non si
stemperano mai. I rifornimenti erano carenti,
mi ha aiutato la gente», racconta: «Nel
Bronx un bimbo mi ha offerto un chupa chups».
Già il pubblico: «In Italia quasi
ti insultano», dice Andrea Loi, «qui
ti trascinano. È un apartecipazione vera,
sincera. Credo che tornerò». «New
York», sottolinea il dentista originario
di Calasetta, Michele Biggio,
«ti insegna che è partecipare,
non vincere, la cosa più importante.
la cosa più bella? Uscire dal Queensboro
Bridge, ponte bellissimo ma buio, e rivedere
la luce e la folla che grida». Infine
il deputato Paolo Fadda, che
si è migliorato rispetto a un anno fa:
«L’aspetto più importante è
la socializzazione, la condivisione della fatica
con gli altri, dopo tanti allenamenti solitari».
Emozioni
indimenticabili per la pattuglia isolana.
Il migliore fra
i Sardi é Andrea Ghiani,
cuoco di Oristano, porta a casa la medaglia ideale.
C’è
sempre da imparare dalla Maratona, corsa crudele
e affascinante.
Ce n’è ancora di più
a New York, dove la gara sui 42,195 chilometri
ha trovato la propria capitale. Si può
imparare come correre, risparmiando nella parte
iniziale per non pagare dazio nella seconda. Dal
pubblico si può imparare il rispetto, che
in Italia nello sport è spesso negato perfino
al secondo classificato. Rispetto per tutti, anche
per chi per un giorno si impadronisce di una città.
Dai tanti disabili si può capire cosa sia
la voglia di vivere, anzi, quali siano le cose
importanti nella vita. Dagli americani, che per
molte cose sono anche - e giustamente - criticati,
si può imparare come si organizza un evento.
E, lezione utilissima ai sardi, come si promuove
il turismo in tutti i modi, anche attraverso lo
sport.
New
York, dall’Alba
allo Zigheddu Piccolo dizionario per
capire la maratona più famosa
Quante
lezioni nella capitale dei 42,195 km
La maratona è un mondo a parte: 42,195
chilometri dove può succedere di tutto.
Ecco un piccolo dizionario per capirci qualcosa.
come A
alba: ci si alza alle 5 per essere al via prima
che il ponte di Verrazzano (alle 7) venga chiuso.
Tre ore e 10’ prima del via. Un’attesa interminabile.
come B
Baldini. Alla partenzatifo e cori tutti per lui.
Da parte degli stessi maratoneti italiani, pronti
a scattare alle sue spalle. Ha chiuso al quarto
posto. C
come Central Park, dove la corsa finisce, dove
la folla trabocca, dove la strada presenta saliscendi
da piangere. È il Valhalla dei maratoneti,
da Dustin Hoffman in poi. D
come deputati. Il sardo Paolo Fadda ha vinto il
duello con Daniela Santanché. Entrambi
hanno corso mostrando il tricolore: sul petto
il primo, dipinto sulla guancia la seconda. F
come finish line, il traguardo: per 40 mila persone
è, per alcune ore, l’unica ragione di vita.
Quando lo tagli dimentichi fatica, dolore e sacrifici.
G
come gente. Ce n’è dappertutto: hanno cartelli,
fischietti, spicchi d’arancia, banane, fazzoletti
di carta, chupa chups da dare agli atleti. E incitano
tutti, per tutto il giorno. H
come handicap: nessuno sembra essere sufficiente
per farmare chi vuole competere. È anche
e soprattutto la sfida del coraggio.
I come italiani: oltre 3200 all’arrivo,
quasi un decimo del totale. I più numerosi
dopo gli statunitensi.
K come kenyani. Ha vinto ancora
uno di loro, Martin Lel, già primo a Londra.
L
come Lance Armstrong. È tornato, si è
migliorato di 13 minuti, ha dimostrato di essere
- nonostante tutto - ancora un personaggio vincente.
Soprattutto per il suo sponsor. M
come Marsi Street, quartiere ebreo,
a Brooklyn, M L K l’unico dove nessuno fa il tifo
a bordo strada. N
come New York, New York, sulle cui note scatta
la gara da Staten Island. O
come organizzazione, quella dei New York Road
Runner. Mostruosa, ma non impeccabile, almeno
stavolta. P
come ponti. Cinque, uno più insidioso dell’altro:
pri- P ma salita, poi discesa. E non è
detto che sia peggio la prima. Q
come Queensboro Bridge, il punto critico della
gara, una salita di un miglio al 25° chilometro.
R
come rifornimenti: solo liquidi, una pecca non
da poco. S
come Staten Island, il quartiere di partenza.
Già, ma chi se lo ricorda? T
come tour operator: Terramia, Born 2 run ed Eis
quelli italiani. Ma (pettorale a parte) con il
"fai da te" si può risparmiare
molto. U
come United Nations, dalla cui sede scatta la
Friendship Run del sabato, vera festa di popoli.
V
come velocità. Espressa in minuti per miglio:
guai a sbagliare ritmo. la maratona non perdona.
W
come wow!: non ci sono altre parole per descrivere
l’ingresso nella First Avenue. Y
come yellow brachelet, il braccialetto giallo
di caucciù con la scritta Livestrong che
sostiene la Fondazione di Armstrong contro il
cancro. Costa un dollaro, ce l’hanno tutti. X
come extra large: tutto è di dimensioni
gigantesche a New York. Anche la fatica. Anche
la gioia. Z
come Zigheddu. Francesco Calledda, 69 anni, bandiera
dei Quattro Mori al vento, ha chiuso la sua settima
maratona.