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dal 12/1/2008


© G.S.Chilometrando
Carlo Alberto Melis - 27 aprile 2006
Un grande fiume di suole gommate, un esercito pacifico e coloratissimo, una moltitudine di persone unite e diverse: tutti assieme alla partenza, poi sparpagliati lungo il percoso, infine riuniti dopo la linea del traguardo, 42.195 metri più in là. La Maratona è una festa di popolo, è partecipazione, è allegra sofferenza da dividere per il maggior numero possibile di teste e di gambe. Più si è, meno si soffre e più la fatica della corsa diventa leggera. La maratona (lamaratonadiniuiòrc, come dice chi pensa che esista solo quella, ma questo è sintomatico del fenomeno, in fondo) te la immagini con tanta gente, con migliaia di iscritti. E come te la immagini, così la vuoi. Perché chi partecipa a questa gara così straordinariamente affascinante sa e pretende di essere parte di un "evento". Non è solo corsa, non solo voglia di sfidare una distanza tanto mitica quanto, oramai, smitizzata: c'è dell'altro. C'è quella spinta a partecipare che è propria i tutti gli "eventi". Comprare il biglietto per un grande concerto rock o per una finale di campionato, assistere a una grande adunata di piazza, sia essa un comizio o l'Angelus domenicale, presuppone l'idea di sentirsi parte integrante di un qualcosa destinato a essere ricordato proprio in quanto capace di un eccezionale coinvolgimento. Una gara di corsa che dura 42 km, cioè quanto una persona normale penserebbe di percorrere solo in macchina, è uno di questi eventi. E pochi amano correrla in situazioni diverse, con una partecipazione ridotta, con un contorno meno eclatante, più essenziale: la strada, i podisti, il cronometro. Eppure anche quella sarebbe - è - maratona.

Nella mia triennale carriera di maratoneta, ho corso la distanza otto volte: due, come ultima frazione di un Ironman; sei in una maratona pura e semplice. Sino allo scorso 25 aprile, il minimo dei partecipanti era stato di poco inferiore a duemila (Reggio Emilia 2004) e il massimo di circa ottomila (Roma 2003, il mio debutto). Credo che due-tremila partecipanti sia il numero ideale: un gruppo abbastanza numeroso da garantire la riuscita della manifestazione, ma abbastanza ridotto da impedire i disagi di una partenza al rallentatore.Mi spaventano le gigantesche maratone da trentacinquemila partecipanti, nelle quali le fasi iniziali sono caotiche e rischiose e che rendono difficile trovare subito il passo giusto. In una gara nella quale la giusta andatura è l'elemento più importante di tutti, capirete che il pericolo di consumare eccessive energie nervose - e magari di compromettere la prestazione con un ritmo troppo elevato o troppo lento - si moltiplica. A Bologna, però, il problema era completamete rovesciato. Un centinaio di partenti (forse addirittura meno) costituivano nella mia previsione un concreto presupposto per una gara in solitaria. Che probabilità c'erano di trovare anche un solo podista che avesse un passo analogo al mio, se non identico? Che speranze di non ridurmi a correre in una sconfortante solitudine gran parte di quel percorso interminabile?
Con questi dubbi mi sono preparato alla sfida. La curiosità di verificare le mie condizioni superava la paura di una nuova delusione. A Treviso, solo sei settimane prima, avevo pagato a carissimo prezzo una partenza eccessivamente brillante e il fatto di sapere di aver commesso (deliberatamente) un azzardo, non mi consolava. Il rischio di accusare ancora problemi di tenuta era concreto. Eppure, per la prima volta nella mia esperienza di maratoneta, non correvo con la speranza di migliorare il mio primato personale. Per la prima volta corevo una maratona con l'obiettivo di ottenere un piazzamento. Era un ulteriore passo avanti nella mia parabola atletica e ne prendevo atto con orgoglio. Le 2 ore 44'57" di Milano mi avevano collocato all'ottavo posto nella graduatoria regionale del 2005 e le statistiche mi dicono che i miei piazzamenti in gare importanti sono ormai nel primo cinque per cento della classifica. Per di più, consultando la classifica della prima Maratona dei Castelli Medievali, vinta dal sucitano Sergio Curreli, avevo calcolato che correndo al meglio delle mie possibilità sarei arrivato sesto assoluto. Così, tanto per rispettare una tradizione comune a molti, avevo fissato il mio obiettivo per la gara: entrare in premiazione, ovvero arrivare tra i primi dieci assoluti e tra i primi tre della mia categoria. Addirittura, avevo letto con attenzione l'elenco dei premi, quasi fossi in grado di determinare in anticipo il mio piazzamento e gestire la gara in sua funzione. Non avevo potuto fare a meno di sorridere vedendo che al quarto e al quinto sarebbero stati consegnati dei prosciutti, mentre il terzo avrebbe ricevuto, meno bucolicamente, un apparecchio per l'aerosol.

Riscaldamento con la mia amica triatleta Simona

La gara è stata più dura del previsto, anche se nella prima metà tutto è filato liscio. Ho trovato un compagno di viaggio (Luigi, bolognese, 35 anni) e un bel passo che mi ha fatto arrivare ai 21 km in 1.21'50", con una proiezione di 2.43'40" che mi avrebbe consentito di abbassare di oltre un minuto il mio personale. Siamo partiti seguendo il nostro ritmo e, attorno al 18° km, eravamo al quarto posto, con la speranza che il primo, partito a tavoletta sin dai primi metri, si cuocesse al sole. E così è stato, in effetti. Ma il caldo ha fatto molte vittime e così, dopo aver perso il mio compagno, vittima di crampi, sono stato raggiunto e staccato da un podista che ho la presunzione di giudicare inferiore a me. Non quel giorno, però. Dopo 27 km, proprio mentre il terzo in classifica si fermava vinto dal caldo e io mi ritrovavo a lottare per il podio, si accendevano tutte le spie del mio immaginario cruscotto. Quella della benzina, quella dell'acqua. La fame e la sete sono nemici giurati del fondista e il loro comportamento è subdolo: quando si manifestano non sono più rimediabili. Non serve più bere e reintegrare le sostanze spese, perché l'organismo non fa più in tempo a sintetizzarle, a rendere disponibili per rimpiazzare le perdite. È il momento in cui, davvero, comincia la maratona, gara di gambe, di testa e di cuore. E se le prime non ti sostengono, non ti resta che affidarti agli altri due. Ho provato a rallentare, controllando con lo sguardo il mio avversario che si allontanava. "Se riesco a non fargli prendere più di un minuto", pensavo, "avrò la possibilità di recuperare alla fine, se questa crisi è passeggera". Intanto però, vedevo avvicinarsi pericolosamente alle spalle il quinto in classifica.

La maratona si presta a tante metafore perché è lunga come una vita intera. Perciò, come nella vita, ha tante fasi e in ognuna di queste tu puoi cambiare il tuo punto di vista sulle cose. Avviene in modo sistematico e stupefacente. Ero partito con il proposito di piazzarmi tra i primi dieci. Ora ero quarto ed ero deluso. Eppure avevo anche il desiderio di difendere quel posto ai piedi del podio, del quale avrei potuto accontentarmi. Temevo la rimonta del mio inseguitore ma sentivo di poter reagire meglio se pensavo di lottare per inseguire il terzo posto. I due obiettivi si materializzarono nel breve volgere di pochi chilometri, tra il 32° e il 35°. Ero stato affiancato da un triatleta bolognese in bici che mi aveva comunicato che quello dietro era in crisi: "non può essere più in crisi di me", avevo pensato. Poi, al 33° km, ho aggredito una delle tante salitelle con il proposito di dare una scossa alla mia gara, forte del

Il momento in cui capisci che ce l'hai fatta coi pensieri lunghi 2.56'57"

fatto che, cambiando andatura, la fitta che avevo all'addome diminuiva di intensità. In cima alla salita il mio inseguitore aveva ceduto, cominciando a camminare. Purtroppo quando la strada spianava lo spasmo riprendeva a farsi sentire, costringendomi a correre contratto

e con la testa in avanti. Ormai prendevo i tempi parziali ai cartelli chilometrici senza neppure guardare il cronometro.

 

Non mi interessava più il tempo, ma correvo solo per il piazzamento. Senza accorgermene, la mia mentalità era cambiata e se avessi ripensato al mio debutto sulle strade di Roma avrei trovato un podista totalmente diverso. Pensai solo che mi sarebbe dispiaciuto finire sopra le tre ore, cosa che mi era capitata solo nella mia prima maratona, ma neppure di quello in fondo mi importava tanto. Superato il ponte sul Reno, a Casalecchio, ho trovato il ristoro dei 35 km: una volontaria, passandomi un bicchiere d'acqua e uno con sali minerali, mi ha detto: "Forza, sei terzo"! Ciò che avevamo ipotizzato si era realizzato. Il caldo e le insidie del percorso (altro che maratona più veloce d'Italia!) avevano indotto il primo a ritirarsi: doveva essere proprio mal messo per prendere una simile decisione, con la prospettiva di vincere la corsa. Per me, invece, si profilava l'eventualità di salire sul podio, per la prima volta nella mia carriera. Pensai a ciò che questo avrebbe significato e cominciai a fare l'appello dei pensieri positivi, per trovare qualcosa che mi facesse andare avanti. Ero già da diversi chilometri in quella fase nella quale la fatica ha fatto spazio a un dolore che è quasi come un metronomo. Ad ogni passo, ciascuno dei tuoi muscoli risponde "presente" con una leggera fitta e i piccoli fastidi (la pianta dei piedi che si arroventa, le dita gonfie che cominciano a toccare la punta della scarpa, le coscie che dopo aver consumato la vaselina, sfregano tra loro con un bruciore crescente) diventano quasi un diversivo per non pensare al mal di gambe. Non è una situazione di emergenza, è la normalità della maratona. È sempre così: quando stai meglio sopporti le stesse sofferenze, con la differenza che stai andando più veloce.

 
Il momento delle premiazioni

Poi arriva quel momento. Il momento in cui capisci che ce l'hai fatta. Non è la linea del traguardo, perché quella quando l'hai passata cancella tutte le sensazioni. Il momento è quando decidi che ormai nulla ti potrà fermare: tre chilometri, due chilometri, uno. Sembra una strada in discesa e se il dolore è sempre più forte, la paura è passata. La testa comincia a liberarsi dei cattivi pensieri e si ubriaca di gioia. "Ce l'ho fatta, sono sul podio, il primo podio della mia vita", pensavo quasi a voce alta mentre dalle macchine in coda sui viali bolognesi qualcuno mi incoraggiava. Non è facile fermare certe emozioni. Ho pensato che se mi doveva succedere forse era meglio piangere prima del traguardo ed è curioso che il torrente emotivo abbia raggiunto un livello di piena toccato solo la prima volta, a Roma. Perché non è la prestazione che ti appaga così in profondità, non è il tempo. È, semmai, la consapevolezza di esserti meritato il premio. Questa volta ho avuto la possibilità di ritirarlo io: sono salito sul podio con le insegne di un esercito sterminato. Quello che transita sulla linea del traguardo senza clamore, senza vincere e senza battere record se non quelli personali. Quello abituato ad avere soltanto la medaglia ricordo e gioire della soddisfazione di avercela fatta. Quello che non si aspetta nulla di più, che non chiede nulla di più. Quello che la sua sfida la vive dentro di se' e anche se gli piacerebbe non si attende che ad altri interessi ciò che fa. A Bologna uno di loro è salito sul podio. Sono io, siamo tutti noi.