Un
grande fiume di suole gommate, un esercito pacifico
e coloratissimo, una moltitudine di persone unite
e diverse: tutti assieme alla partenza, poi sparpagliati
lungo il percoso, infine riuniti dopo la linea del
traguardo, 42.195 metri più in là.
La Maratona è una festa di popolo, è
partecipazione, è allegra sofferenza da dividere
per il maggior numero possibile di teste e di gambe.
Più si è, meno si soffre e più
la fatica della corsa diventa leggera. La maratona
(lamaratonadiniuiòrc, come dice chi pensa
che esista solo quella, ma questo è sintomatico
del fenomeno, in fondo) te la immagini con tanta
gente, con migliaia di iscritti. E come te la immagini,
così la vuoi. Perché chi partecipa
a questa gara così straordinariamente affascinante
sa e pretende di essere parte di un "evento".
Non è solo corsa, non solo voglia di sfidare
una distanza tanto mitica quanto, oramai, smitizzata:
c'è dell'altro. C'è quella spinta
a partecipare che è propria i tutti gli "eventi".
Comprare il biglietto per un grande concerto rock
o per una finale di campionato, assistere a una
grande adunata di piazza, sia essa un comizio o
l'Angelus domenicale, presuppone l'idea di sentirsi
parte integrante di un qualcosa destinato a essere
ricordato proprio in quanto capace di un eccezionale
coinvolgimento. Una gara di corsa che dura 42 km,
cioè quanto una persona normale penserebbe
di percorrere solo in macchina, è uno di
questi eventi. E pochi amano correrla in situazioni
diverse, con una partecipazione ridotta, con un
contorno meno eclatante, più essenziale:
la strada, i podisti, il cronometro. Eppure anche
quella sarebbe - è - maratona.
Nella mia triennale carriera di
maratoneta, ho corso la distanza otto volte: due,
come ultima frazione di un Ironman; sei in una
maratona pura e semplice. Sino allo scorso 25
aprile, il minimo dei partecipanti era stato di
poco inferiore a duemila (Reggio Emilia 2004)
e il massimo di circa ottomila (Roma 2003, il
mio debutto). Credo che due-tremila partecipanti
sia il numero ideale: un gruppo abbastanza numeroso
da garantire la riuscita della manifestazione,
ma abbastanza ridotto da impedire i disagi di
una partenza al rallentatore.Mi spaventano le
gigantesche maratone da trentacinquemila partecipanti,
nelle quali le fasi iniziali sono caotiche e rischiose
e che rendono difficile trovare subito il passo
giusto. In una gara nella quale la giusta andatura
è l'elemento più importante di tutti,
capirete che il pericolo di consumare eccessive
energie nervose - e magari di compromettere la
prestazione con un ritmo troppo elevato o troppo
lento - si moltiplica. A Bologna, però,
il problema era completamete rovesciato. Un centinaio
di partenti (forse addirittura meno) costituivano
nella mia previsione un concreto presupposto per
una gara in solitaria. Che probabilità
c'erano di trovare anche un solo podista che avesse
un passo analogo al mio, se non identico? Che
speranze di non ridurmi a correre in una sconfortante
solitudine gran parte di quel percorso interminabile?
Con questi dubbi mi sono preparato alla sfida.
La curiosità di verificare le mie condizioni
superava la paura di una nuova delusione. A Treviso,
solo sei settimane prima, avevo pagato a carissimo
prezzo una partenza eccessivamente brillante e
il fatto di sapere di aver commesso (deliberatamente)
un azzardo, non mi consolava. Il rischio di accusare
ancora problemi di tenuta era concreto. Eppure,
per la prima volta nella mia esperienza di maratoneta,
non correvo con la speranza di migliorare il mio
primato personale. Per la prima volta corevo una
maratona con l'obiettivo di ottenere un piazzamento.
Era un ulteriore passo avanti nella mia parabola
atletica e ne prendevo atto con orgoglio. Le 2
ore 44'57" di Milano mi avevano collocato
all'ottavo posto nella graduatoria regionale del
2005 e le statistiche mi dicono che i miei piazzamenti
in gare importanti sono ormai nel primo cinque
per cento della classifica. Per di più,
consultando la classifica della prima Maratona
dei Castelli Medievali, vinta dal sucitano Sergio
Curreli, avevo calcolato che correndo al meglio
delle mie possibilità sarei arrivato sesto
assoluto. Così, tanto per rispettare una
tradizione comune a molti, avevo fissato il mio
obiettivo per la gara: entrare in premiazione,
ovvero arrivare tra i primi dieci assoluti e tra
i primi tre della mia categoria. Addirittura,
avevo letto con attenzione l'elenco dei premi,
quasi fossi in grado di determinare in anticipo
il mio piazzamento e gestire la gara in sua funzione.
Non avevo potuto fare a meno di sorridere vedendo
che al quarto e al quinto sarebbero stati consegnati
dei prosciutti, mentre il terzo avrebbe ricevuto,
meno bucolicamente, un apparecchio per l'aerosol.
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Riscaldamento
con la mia amica triatleta Simona
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La gara è stata più
dura del previsto, anche se nella prima metà
tutto è filato liscio. Ho trovato un compagno
di viaggio (Luigi, bolognese, 35 anni) e un bel
passo che mi ha fatto arrivare ai 21 km in 1.21'50",
con una proiezione di 2.43'40" che mi avrebbe
consentito di abbassare di oltre un minuto il
mio personale. Siamo partiti seguendo il nostro
ritmo e, attorno al 18° km, eravamo al quarto
posto, con la speranza che il primo, partito a
tavoletta sin dai primi metri, si cuocesse al
sole. E così è stato, in effetti.
Ma il caldo ha fatto molte vittime e così,
dopo aver perso il mio compagno, vittima di crampi,
sono stato raggiunto e staccato da un podista
che ho la presunzione di giudicare inferiore a
me. Non quel giorno, però. Dopo 27 km,
proprio mentre il terzo in classifica si fermava
vinto dal caldo e io mi ritrovavo a lottare per
il podio, si accendevano tutte le spie del mio
immaginario cruscotto. Quella della benzina, quella
dell'acqua. La fame e la sete sono nemici giurati
del fondista e il loro comportamento è
subdolo: quando si manifestano non sono più
rimediabili. Non serve più bere e reintegrare
le sostanze spese, perché l'organismo non
fa più in tempo a sintetizzarle, a rendere
disponibili per rimpiazzare le perdite. È
il momento in cui, davvero, comincia la maratona,
gara di gambe, di testa e di cuore. E se le prime
non ti sostengono, non ti resta che affidarti
agli altri due. Ho provato a rallentare, controllando
con lo sguardo il mio avversario che si allontanava.
"Se riesco a non fargli prendere più
di un minuto", pensavo, "avrò
la possibilità di recuperare alla fine,
se questa crisi è passeggera". Intanto
però, vedevo avvicinarsi pericolosamente
alle spalle il quinto in classifica.
La maratona si presta a tante metafore perché
è lunga come una vita intera. Perciò,
come nella vita, ha tante fasi e in ognuna di
queste tu puoi cambiare il tuo punto di vista
sulle cose. Avviene in modo sistematico e stupefacente.
Ero partito con il proposito di piazzarmi tra
i primi dieci. Ora ero quarto ed ero deluso. Eppure
avevo anche il desiderio di difendere quel posto
ai piedi del podio, del quale avrei potuto accontentarmi.
Temevo la rimonta del mio inseguitore ma sentivo
di poter reagire meglio se pensavo di lottare
per inseguire il terzo posto. I due obiettivi
si materializzarono nel breve volgere di pochi
chilometri, tra il 32° e il 35°. Ero stato
affiancato da un triatleta bolognese in bici che
mi aveva comunicato che quello dietro era in crisi:
"non può essere più in crisi
di me", avevo pensato. Poi, al 33° km,
ho aggredito una delle tante salitelle con il
proposito di dare una scossa alla mia gara, forte
del
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Il momento
in cui capisci che ce l'hai fatta coi
pensieri lunghi 2.56'57"
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fatto che, cambiando andatura, la fitta che avevo
all'addome diminuiva di intensità. In cima
alla salita il mio inseguitore aveva ceduto, cominciando
a camminare. Purtroppo quando la strada spianava
lo spasmo riprendeva a farsi sentire, costringendomi
a correre contratto
e con la testa in avanti. Ormai prendevo i tempi
parziali ai cartelli chilometrici senza neppure
guardare il cronometro.
Non mi interessava più il tempo, ma correvo
solo per il piazzamento. Senza accorgermene, la
mia mentalità era cambiata e se avessi
ripensato al mio debutto sulle strade di Roma
avrei trovato un podista totalmente diverso. Pensai
solo che mi sarebbe dispiaciuto finire sopra le
tre ore, cosa che mi era capitata solo nella mia
prima maratona, ma neppure di quello in fondo
mi importava tanto. Superato il ponte sul Reno,
a Casalecchio, ho trovato il ristoro dei 35 km:
una volontaria, passandomi un bicchiere d'acqua
e uno con sali minerali, mi ha detto: "Forza,
sei terzo"! Ciò che avevamo ipotizzato
si era realizzato. Il caldo e le insidie del percorso
(altro che maratona più veloce d'Italia!)
avevano indotto il primo a ritirarsi: doveva essere
proprio mal messo per prendere una simile decisione,
con la prospettiva di vincere la corsa. Per me,
invece, si profilava l'eventualità di salire
sul podio, per la prima volta nella mia carriera.
Pensai a ciò che questo avrebbe significato
e cominciai a fare l'appello dei pensieri positivi,
per trovare qualcosa che mi facesse andare avanti.
Ero già da diversi chilometri in quella
fase nella quale la fatica ha fatto spazio a un
dolore che è quasi come un metronomo. Ad
ogni passo, ciascuno dei tuoi muscoli risponde
"presente" con una leggera fitta e i
piccoli fastidi (la pianta dei piedi che si arroventa,
le dita gonfie che cominciano a toccare la punta
della scarpa, le coscie che dopo aver consumato
la vaselina, sfregano tra loro con un bruciore
crescente) diventano quasi un diversivo per non
pensare al mal di gambe. Non è una situazione
di emergenza, è la normalità della
maratona. È sempre così: quando
stai meglio sopporti le stesse sofferenze, con
la differenza che stai andando più veloce.
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Il
momento delle premiazioni |
Poi arriva quel momento. Il momento
in cui capisci che ce l'hai fatta. Non è
la linea del traguardo, perché quella quando
l'hai passata cancella tutte le sensazioni. Il
momento è quando decidi che ormai nulla
ti potrà fermare: tre chilometri, due chilometri,
uno. Sembra una strada in discesa e se il dolore
è sempre più forte, la paura è
passata. La testa comincia a liberarsi dei cattivi
pensieri e si ubriaca di gioia. "Ce l'ho
fatta, sono sul podio, il primo podio della mia
vita", pensavo quasi a voce alta mentre dalle
macchine in coda sui viali bolognesi qualcuno
mi incoraggiava. Non è facile fermare certe
emozioni. Ho pensato che se mi doveva succedere
forse era meglio piangere prima del traguardo
ed è curioso che il torrente emotivo abbia
raggiunto un livello di piena toccato solo la
prima volta, a Roma. Perché non è
la prestazione che ti appaga così in profondità,
non è il tempo. È, semmai, la consapevolezza
di esserti meritato il premio. Questa volta ho
avuto la possibilità di ritirarlo io: sono
salito sul podio con le insegne di un esercito
sterminato. Quello che transita sulla linea del
traguardo senza clamore, senza vincere e senza
battere record se non quelli personali. Quello
abituato ad avere soltanto la medaglia ricordo
e gioire della soddisfazione di avercela fatta.
Quello che non si aspetta nulla di più,
che non chiede nulla di più. Quello che
la sua sfida la vive dentro di se' e anche se
gli piacerebbe non si attende che ad altri interessi
ciò che fa. A Bologna uno di loro è
salito sul podio. Sono io, siamo tutti noi.
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