leggi il racconto "Fin del mondo"Cronaca di un viaggio in bici in Patagonia
Carretera austral “Augusto Pinochet”
di Enzo Pascalis
Novembre-dicembre 2003
La carretera austral o camino de penetracion, fu fatto
costruire dall’ex dittatore alla fine degli anni settanta
e terminata,
nel tratto più a sud, solo da pochi anni. Questa
sterrata in pratica collega P.to Montt con Villa O’Higgins
attraversando una delle zone più disabitate del
sud Cileno. La prima parte può essere percorsa
in modo discontinuo a causa di alcuni trasbordi su lance
per l’attraversamento di fiordi e tratti di mare nella
zona del Parco Nazionale Alerce Andino. Si giunge sino
a Chaiten da dove occorre percorrere 420 chilometri
prima di raggiungere Coyaique, il più grosso
centro della regione e sede amministrativa. In questo
tratto di carretera s’incontrano solo alcuni villaggi
dalla storia molto recente, abitati dai primi pionieri
la cui economia si base essenzialmente sull’allevamento
e sul commercio di legnami. Solo nei piccolissimi villaggi
sul pacifico esiste una trascurabile attività
di pesca. In questo tratto si attraversa il Parco Nazionale
di Queulat e le terme di Puerto Puyuguapy note per la
talassoterapia. Nel tratto della Carretera sud, da Coyaique
a Villa O’Higgins, si aggira il grande Lago General
Carrera (Lago Buenos Aires la parte argentina), secondo
lago del sudamerica dopo il Titicaca, alimentato dai
grandi fiumi e collegato col mare dal famoso Rio Backer,
meta di numerosi appassionati pescatori d’acqua dolce. Più a sud solo grandi foreste
e lagune, delimitate ad ovest dallo Hielo Norte e dal
“Cerro san Valentin che con i suoi 4058 metri è
il più alto della Patagonia. Il Camino Austral
termina sulla parte nord del lago O’Higgins/San Martin,
grande e tempestoso che nel suo lato orientale segna
il confine con l’Argentina. Ad ovest gli alti contrafforti
del Fitz Roy e dello Hielo Continental Sur impediscono
qualsiasi collegamento terrestre con l’Oceano Pacifico.
A causa di ciò gli abitanti della parte settentrionale
del Cile patagonico per raggiungere via terra la parte
sud e i suoi grossi centri abitati di P.to Natales e
P.ta Arenas, sono costretti a passare dall’Argentina.
La Patagonia ormai mi ha segnato per sempre,
è la quinta volta che volo in sudamerica e la
terza nel profondo sud sino alla terra del fuoco. Quello
che mi affascina di questo lontano paese sono le grandi
distese disabitate, la natura incontaminata e una solitudine
che non ti fa sentire solo. Sin da bambino ho sognato
e vagabondato, ho imparato che gli orizzonti lontani
si raggiungono e si superano per raggiungerne altri
e poi altri ancora.
Il mezzo di trasporto è sempre lo stesso, la
bicicletta. Non occorre essere dei superman o superallenati,
è sufficiente solo un buon allenamento, passione
e voglia di vivere accettando fatica e disagi, tutto
è ben pagato. Questa volta non parto da solo,
ho buona compagnia, Sergio e Daniele. Per loro è
la prima esperienza di questo tipo ma hanno scorza sufficiente
per affrontare un percorso duro come il “camino de penetracion”,
la preparazione è stata seria e “la gamba”, per
usare un termine ciclistico, è allenata.
Si parte alla volta di Buenos Aires per proseguire,
sempre in aereo, per San Carlos de Bariloche sul lago
Huapi nella regione del Rio Negro. Siamo nel nord della
Patagonia in uno dei posti più belli in assoluto,
per gli argentini è una specie di Cortina. Rivivo
l’emozione del mio arrivo in questa località
lo scorso anno, ricordo che pioveva e davanti a me tanta
strada da percorrere, ma alla fine dei quasi 2000 chilometri
mi sino ritrovato ad essere più consapevole delle
mie risorse e che in fondo si fa più fatica a
pensare che a fare. Ho ancora il ricordo, ormai indelebile,
della tanta sofferenza e della fatica
nei lunghi tratti fatti controvento e sotto l’acqua,
ma anche i volti delle semplici e straordinarie persone
incontrate. A Bariloche questa volta facciamo sosta
solo per una notte prima del trasferimento in Bus alla
volta di Puerto Montt in Cile. Prima cena “argentina”
a base di carne, ci concediamo anche una prelibatezza
tutta sarda, con me ho portato due bottigliette di “sciroppo
agricolo”, una specie di ricostituente per ogni malanno…mirto!,
pesano e occorre consumarle rapidamente ma questo non
è un problema. Il trasferimento in bus si svolge
in uno scenario d’incomparabile bellezza, le Ande offrono
istantanee mozzafiato in un’alternanza senza sosta.
Arriviamo a P.to Montt, situata all’interno dell’ampio
golfo de Ancud, fra l’isola di Chiloè e la Cordigliera
Andina. Tipica cittadina di mare, case in legno, gente
cordiale e disponibile. Il tempo di riassemblare le
bici sotto la pioggia incessante e c’imbarchiamo per
raggiungere il villaggio di Chaiten nella sponda opposta
all’isola di Chiloè. Nell’attraversata facciamo
la conoscenza di Marc Alfred Pellerin, noto scrittore
francese, in viaggio per queste terre in cerca d’ispirazione
per il suo prossimo capolavoro dopo il successo ottenuto
con “N’oublie pas d’avoir peur”. Siamo felici di aver
contribuito alla scelta del titolo, “la meseta del diablo”.
Conosciamo anche due splendide ragazze israeliane, viaggiano
da sole senza alcun timore, dalle loro parti sicuramente
rischierebbero di più. Gli Israeliani sono dappertutto,
viaggiano in gruppi molto numerosi, tutti giovanissimi
ma con almeno due anni di guerra alle spalle. L’attraversata
è gradevole, il mare è calmo, siamo d’altronde
nel pacifico, ma ad ovest ci sono isole grandi come
la Sardegna
a fare da sbarramento ai forti venti antartici. Cormorani
volano radenti le fredde acque in questo angolo di Pacifico,
ogni tanto le foche emergono e ci guardano incuriosite,
nella vicina costa già si nota la lussureggiante
vegetazione, anche se ci dicono che gran parte del bellissimo
parco che si intravede è stato acquistato da
un miliardario americano. A Chaiten arriviamo quando
ormai è notte, troviamo tante persone che ci
offrono sistemazione. Seguiamo l’istinto e accettiamo
la proposta di due signore che ci conducono ad una casa
famiglia, molto spartana ma a mezzanotte va bene. Sergio
chiede se può cucinare degli spaghetti, fuori
le botteghe sono aperte sino a…quando c’è qualcuno
sveglio. Compro tonno in scatola e una bottiglia di
“Santa Emiliana” da offrire ai proprietari di casa.
Ceniamo in compagnia delle ragazze israeliane che suscitano
l’interesse dei “machos” locali i quali, molto timidi,
non vanno oltre a qualche complimento in sottovoce.
Il mattino dopo foto di gruppo sotto la pioggia. Un
beneaugurante bacio da parte delle chicas de Israel
al debutto austral mitiga il freddo e grigio mattino,
si parte finalmente, il sogno si sta rendendo concreto,
anche la pioggia è concreta, fredda e insistente.
I primi chilometri sono su asfalto ma poi il fondo stradale
si fa pessimo a causa dei lavori di bitumazione e dei
numerosi massi, posti ad impedire il transito delle
auto, che ci obbligano a difficili slalom. Finalmente
dopo quindici chilometri inizia il mitico “ripio austral”
(sterrato). Fortunatamente ero già preparato
ad un simile debutto, la Patagonia non ti regala nulla,
te la devi conquistare e l’acqua, il freddo e la pioggia
sono elementi essenziali che caratterizzano questo paese,
se non fosse così non ci sarebbe “gusto” a pedalare
come asini, si poteva andare a fare una pedalata turistica
a Villasimius in primavera. Più soffri per raggiungere
un obiettivo e più grande è l’appagamento
quando lo raggiungi.
Questa volta la fatica e le sofferenze le condivido
con Sergio e Daniele, anche se il detto “mal comune…non
vale, quando si soffre si soffre soli. Arriviamo dopo
sette ore e mezzo stravolti e infreddoliti a causa della
pioggia, fredda e insistente e di una lunghissima salita
spaccacosce, come l’ha definita Jovanotti nel suo racconto
tratto dal “grande boh”, dove alcuni tratti in forte
pendenza ci costringono a spingere a piedi. Unici tifosi
sul percorso sono i compagni di viaggio conosciuti sul
battello il giorno prima, ci salutano dal microbus “riscaldato”
che va nella nostra direzione. Chissà cosa avrà
pensato lo scrittore francese o la bella signora tedesca
quando ci ha immortalato con la sua reflex dal finestrino
posteriore, vedendoci fradici e stravolti dalla fatica
rispondere al saluto con un “sorriso a denti stretti”
perché incapaci di staccare la mano dal manubrio.
Si svalica tra le nuvole sotto una fredda e fastidiosa
pioggerellina, ci copriamo bene prima della lunghissima
discesa ripida e difficile a causa del carrello che
spinge e delle mani congelate che non riescono a tirare
i freni. Consumiamo le ultime energie rimaste prima
si fermarci nel primo villaggio di questo sogno austral,
Villa Santa Lucia. Non occorre cercare un posto per
dormire, il villaggio finisce là dove incomincia
e c’è solo un piccolo hospedaje (alloggiamento),
non abbiamo scelta ma va benissimo. Siamo accolti da
una simpatica "mama" che ci fa sentire a casa
nostra. Ci prepara una cena a base di zuppa di mariscos
e gallina ruspante. Nel villaggio non c’e’ praticamente
nulla, solo una piccola “tienda” ma….senza “patente”
per la vendita di vino. Ci rassegniamo ad altra acqua
dopo quella presa dal cielo ma la sorte ci viene finalmente
incontro, il nipotino della “mama” ha due bricchi di
“gato nero tinto” nascosti per le occasioni. In sostanza
vende clandestinamente il vino acquistato nel villaggio
di La Junta al doppio del prezzo (2 euro l’uno), forse
ha origini napoletane. Mentre maglie, pantaloncini e
scarpe asciugano
vicino ad una stufa a legna, riviviamo le sette ore
e mezzo passate sotto l’acqua e la durezza del percorso,
Sergio è preoccupato per il riacutizzarsi di
una tendinite al ginocchio, dice di aver pensato anche
al ritiro, conoscendolo, prima di un’arresa, si farebbe
mutilare. Speriamo che domani almeno la pioggia ci risparmi.
Qualcuno ci sente ed accoglie la nostra richiesta, il
mattino successivo non piove.
Si parte dopo una ricca colazione, finalmente le nuvole
sono alte e scoprono le creste innevate della cordigliera,
il paesaggio è dolce, morbido quasi irreale.
Pedaliamo rilassati, finalmente possiamo fermarci per
catturare con la reflex questi angoli di paradiso senza
rischiare di bagnare le attrezzature fotografiche. La
carretera attraversa il Parco Nazionale Queulat, una
foresta spezzata da lingue di ghiaccio, torrenti e fiumi
con cascate. Questa zona è stata dichiarata riserva
naturale della biosfera. Il percorso non è duro,
ma tutto è relativo, ieri è stata veramente
epica, oggi nonostante interminabili saliscendi ci sembra
di non faticare ma ogni strappo in salita è come
un muro. Il paesaggio intorno ci lascia senza respiro,
unico commento unanime…”mammamia”!. Lentamente scivoliamo
inghiottiti da questo eden, possiamo pedalare al centro
a sinistra a destra, parcheggiare in mezzo alla carretera,
tanto non passa nessuno. Siamo euforici, il carico oggi
non si sente, sentiamo solo il nostro respiro e il pulsare
del nostro cuore al ritmo della pedalata, vorremmo fermare
il tempo per godere questo momento ma…Pirincho attende.
Giungiamo a La Junta, piccolo villaggio di 200 anime
nel punto di giunzione di due sentieri, uno nostro,
l’altro dal confine argentino dall’altra parte delle
Ande. Sono esattamente a 100 chilometri dal punto in
cui l’anno scorso fui costretto dalla neve e il vento
a fare dietrofront e “farmi la pampa”, arrivo dopo un
anno, ma arrivo. Villaggio fotocopia del precedente,
tutto raccolto in duecentometri di lunghezza, case in
legno disposte lungo la carretera, soliti cani liberi
a spartirsi le “quadre”, come chiamano qui gli isolati,
padroni senza padroni, non conoscono sassi, bastoni
e… ciclisti, beati loro, si accoppiano senza alcun pudore
davanti a tutti. Troviamo un buon alloggiamento per
pochi pesos, l’accoglienza è come sempre calorosa,
forse perché il nostro atteggiamento nei confronti
della gente del posto è tipicamente italiano,
anzi sardo e da queste parti ci sentiamo a casa nostra;
quando poi arrivi con tanto di bici e carrello è
il massimo apprezzamento che si possa fare alla loro
terra. Troviamo il primo “Internet point”, va molto
lento ma è sempre meglio dei piccioni viaggiatori.
Piove tutta la notte ma ci conforta sapere che le “nostre
bambine” sono al coperto dentro una legnaia, sino ad
ora hanno fatto il loro dovere e senza alcun problema
meccanico, ma abbiamo percorso solo 160 km e non è
il caso di brindare. Il ginocchio di Sergio incomincia
a preoccuparci, le dure salite e l’acqua non aiutano
di certo il recupero, tentiamo di risolvere il problema
con antinfiammatori e pomata, regolo anche l’altezza
e l’inclinazione della sella, vedremo domani come andrà.
Qualcuno di noi ha ancora energie da spendere e“taglia
legna tutta la notte”, d’altronde gli alberi non mancano
ed il riscaldamento è a legna.
Da la Junta ci rituffiamo verso il seno ventisquero,
un lungo fiordo di acque calme e placide come una laguna
dove si specchiano le dolci e verdi montagne, non c’è
vento e l’atmosfera è di pace e tranquillità.
Il villaggio è piccolo ma gradevole, ci concediamo
una cabana di lusso e una cena a base di salmone freschissimo.
Dal pacifico risaliamo all'interno attraverso uno dei
posti piu’belli in assoluto che abbia mai visto, foreste
sconfinate e fittissime, alberi giganteschi e fiumi
impetuosi che quando si chiamano "arroyo chico"
sono grandi quanto il Po....figuriamoci i vari rio grande.
Si parte con rapporti agili per “scaldare bene i nostri
“vecchi motori diesel”, e dare la possibilità
a Sergio di collaudare il suo ginocchio. Tutto lasciava
presagire ad un trasferimento dolce e senza grandi salite
ma ormai non crediamo più alle informazioni ricevute
sul percorso, siamo in sudamerica e si sa che da queste
parti la precisione e il dettaglio sono trascurabili.
Alla pregunta su “come es el ripio manana “ la risposta
è sempre rassicurante,” el camino no sube y se
sube es muy soave, despues baja y plana hasta la llegada”.
Novanta chilometri durissimi di sterrato con fondo pessimo,
una sorta d’arenile tipo “spiaggia di flumini” che non
ti permette la minima distrazione…chiedere a Daniele.
Salite con pendenze dolomitiche e discese lunghe e pericolose
mettono a dura prova mani, freni e quasi arroventano
i cerchi, alla faccia delle “subidas soaves”. Oggi non
è il giorno adatto per la grande fuga, c’è
tanta strada da percorrere e poi, quando non te l’aspetti,
c’è sempre la sorpresa. Prima di giungere a Villa
Amengual, infatti, la ciliegina sulla torta, per risparmiare
lavoro ed evitare di sbancare la montagna, l’esercito
di Pinochet taglia corto, in due chilometri si sale
di 250 metri!. Alla fine totalizziamo ben 1500 metri
di dislivello che ci fanno rimpiangere i vari giretti
di “costa rey” che a confronto sono passeggiate romantiche.
Quando arriviamo all’ingresso del piccolo ma ordinato
villaggio, veniamo accolti da un gruppo di bambini in
bicicletta, suscitiamo la loro curiosità per
il carico a rimorchio e per i “reloj” sul manubrio (computerino
e altimetro). Ci accompagnano festanti all’unico hospedaje
del villaggio, molto ordinato e con le stradine interne
cementate. Siamo veramente stanchi e abbiamo una fame
da gregari alla fine di un tour, purtroppo la sorte
non è dalla nostra, zuppa di sciacquatura di
chissà quale intruglio e costole d’agnello da
rosicchiare, fortuna che il pane abbonda. Sergio afferma
che nonostante la durissima tappa, il ginocchio è
stato domato, non avevamo dubbi, Pirincho è più
vicino.
Da Villa Amengual altro trasferimento
di 68 km sino a Villa Maiñuales, tutto sommato
piacevoli a parte i primi 30 km a causa del fondo molto
infido dovuto ad uno strato di terriccio sabbioso. A
venti chilometri dal villaggio ci sembra di sognare,
c’è asfalto, il vento ci è favorevole
e le bici vanno come motorini. Arriviamo molto presto
e abbiamo il tempo di farci il bucato, manutenere le
bici e soprattutto prendere contatto Pirincho. L’unico
modo di parlare con “el capitan” è la radio.
Molto gentilmente le guardie del CONAF, (guardie forestali)
ci permettono un collegamento con Pirincho, si sente
malissimo, tra noi e lui ci sono montagne, ghiacciai,
fiordi e…tanta fatica. La conversazione si consuma in
pochi secondi: hola Pirincho me escucha?, tiene barco
para il dies de dicembre? , attimi d’attesa, poi la
risposta breve e lapidaria: Debo cruzar il lago il seis
y el vienti. Mancano sei giorni al primo traghettameno
e ci sono ancora 800 chilometri da percorrere, per essere
puntuali dovremmo pedalare anche la notte. Rimandiamo
la decisione il giorno dopo, occorre valutare attentamente
l’alternativa.
Oggi altri 88 km (su asfalto!), molto gradevoli nella
prima parte ma "cattivi e velenosi" nel tratto
finale a causa di una salita spaccagambe tipo "muro
delle fiandre" ma di 5 km al 12%. Ingresso trionfante
tipo reduci di guerra (vinta), a Coyaique dove ci concediamo
un’Hostal di lusso per ben 13 euro a testa. La citta’
è grande e possiamo telefonare, navigare su internet,
cambiare i soldi e concederci un buon ristorante tipico
con solo menu vegetariano….”asadi e parrillas”!
Tutto sommato la prima meta' e' stata completata alla
grande nonostante qualche problema muscolare, ma Sergio
no l’ha data vinta e ha lottato duramente contro una
fastidiosa tendinite al ginocchio sinistro, facendo
lavorare l'altra gamba e ...la testa, alla fine si e'
conquistato gli onori sul campo. In questa prima parte
abbiamo sempre trovato dei villaggetti molto poveri
ma ordinati e forniti di tutto ciò che ci necessitava,
viveri bevande e letti caldi, le tende non sono state
ancora utilizzate ma verrà il momento. Purtroppo
stanno incominciando i lavori per asfaltare questo mito
patagonico, ma occorre tener presente che da queste
parti Pinochet e' stato amato ( e lo e' ancora) per
aver dato la possibilità a queste genti di uscire
dall'isolamento. Raccontava la proprietaria di un hospedaje
che durante il lungo e rigido inverno molte volte la
carrettera e' interrotta a causa di frane, alberi che
cadono o la molta neve (non ci sono gli spazzaneve)
isolando totalmente dal resto del mondo i villaggi con
conseguente mancato approvvigionamento di viveri e assistenza
sanitaria. Ben venga l'asfalto, noi l'abbiamo percorsa
sullo sterrato!
Dopo
aver risentito Pirincho telefonicamente da Coyaique,
per aver ulteriore conferma dei suoi programmi, prendiamo
la decisione di fare in modo di essere per il 6 dicembre
al lago O'Higgins, perdere l'occasione di passare per
quella frontiera non mi va proprio, l'alternativa sarebbe
...desierto y viento e ho ancora fresco il ricordo dello
scorso anno. Tagliamo i 100 km di asfalto da Coyaique
a Villa Cerro Castillo e i successivi per Cochrane.
Da Cochrane ci sono circa 250 km di duro ripio senza
alcuna possibilita' di trovare da mangiare, solo alte
montagne e foreste amazzoniche. Chiediamo comunque informazioni
sul percorso e ci assicurano che a Puerto Yungai c'e'
un "pequeño pueblo y una ciquitita tienda"
(alimentari). Ci riforniamo dell'occorrente per essere
autosufficienti due giorni. Il percorso e' semplicemente
fantastico: foreste, laghi, cascate e picchi innevati
mitigano le disumane fatiche. Dopo una sessantina di
km, ormai quasi a riserva, incontriamo una persona che
vive isolata dal mondo nella sua casetta di legno e
ci afferma che a P.to Yungai non c'e' assolutamente
nulla, solo una caserma dell'armata cilena.....mamma
mia!. Ci facciamo un po di calcoli e ci rendiamo conto
che ci manca l'alimentazione per un'intera giornata.
Pedalare con i nostri carichi significa consumare circa
4000 kcal a giorno, poi c'e' la pioggia e il freddo
che aumentano il dispendio calorico. Proseguiamo cercando di economizzare ogni
energia, con occhio attento scrutiamo i lati della carretera
con la speranza di trovare segni di vita. Ad un certo
punto una casa abitata ci fa urlare di gioia e speranza,
ma ci sono solo un cane e un gatto: quest’ultimo ci
viene incontro ma forse intuisce la nostra fame e ....se
la da a gambe … meglio non scherzare con tre ciclisti
affamati, per giunta sardi. Avanziamo ancora qualche
chilometro e finalmente una casita con il camin che
fuma, ci facciamo avanti tra galline, pecore e cani
diffidenti e impauriti, viene fuori una donna, cosi'
almeno sembrerebbe dalla lunga coda, non dalle sembianze.
Avra' massimo 45 anni, e' semplicemente orribile, sicuramente
non rischia nulla. Chiediamo se ci vende qualche cosita
para comer. Lei gentilmente prima scomoda una gallina
intenta a covare e le toglie le uova da sotto, poi entra
dentro casa (ci dice di attendere, forse c'e' l'amante)
e vien fuori con una forma di formaggio di vacca, ne
taglia un pezzo di due chili e ce lo offre assieme a
due pezzi di pane fatto da lei. Le chiediamo quanto
le dobbiamo e ci ci risponde "nada". Questa
e' una lezione di vita, noi leggiamo la parabole del
buon samaritano, lei che non sa né leggere né
scrivere, si limita a metterla in pratica. La costringo
ad accettare 5000 pesos e la salutiamo evitando di baciarla.
La fortuna ci assiste ancora, poco dopo altro fumo proveniente
dal bosco mi incuriosisce, mi fermo e nell’attesa di
Sergio e Daniele vado ad ispezionare. C'e' un tizio
che lavora, mi vede e mi viene incontro, si presenta:
Luis. Sta li da solo a preparare un camping per la stagione
"calda" che dovrebbe arrivare, dubito che
arrivino anche i turisti. Chiediamo se possiamo piazzare le tende
nel suo spazio, ci risponde che e' felice della nostra
compagnia e che se vogliamo ci prepara anche la comida,
solo cordero, non c'e' altro.....evviva! Cordero con
patate, cordero alla plancia, papas e tanto calore.
Chiacchieramo sino all'una del mattino, del nostro viaggio
e del suo lavoro: viene da Santiago e ha molte speranze
per la sua attività. La mattina, dispiaciuti,
partiamo. Anche
Luis e' dispiaciuto, siamo stati le prime persone incontrate
da 20 giorni. La pioggia si fa sempre piu' insistente,
ma non ci impedisce di fare molte soste per ammirare
gli immancabili spettacoli della natura e scattare foto.
Incomincia una lunga salita con pendenze impossibili
anche per gregari in fuga, costringendoci a mettere
piu' volte il piede a terra. L'esercito di Pinochet
ha veramente aperto un varco incidendo profondamente
la montagna. Una scritta sul costone roccioso dice:
" le difficolta' esistono per essere superate".
Poco piu' avanti un cartello in legno ricorda tre soldati
volati giù' nel burrone con la loro camionetta.
Lo scollinamento avviene dopo 650 mt di dislivello sotto
la pioggia e il vento. Siamo esausti ma determinati.
La discesa e' peggio della salita: profondi burroni
e fondo stradale pietroso ci costringono piu' volte
a scendere dalle bici, un vero e proprio "camino
ripio barrancoso", se sbagli la frenata...voli
giu'! Giungiamo finalmente a P.to Yungai, non c'e' nulla,
solo una caserma e qualche perrito scodinzolante. Occorre attendere il battello per attraversare
il fiordo del pacifico. Nell'attesa una camionetta si
ferma di fronte all'imbarcadero, l'autista vedendoci
stravolti con bici e carriti si incuriosisce. Solita
domanda, de donde... gli spieghiamo della nostra "missione
da compiere", delle fatiche e...della grande fame.
Abboccato!, Tira fuori tre panini con mortadella e ce
li offre, che facce toste, ma la fame supera le inibizioni
e aguzza l'ingegno. Si chiama Tito Levican Mancilla
e questo nome mi suona conosciuto, scopriamo, infatti,
che Tito e' fratello di Riccardo Mancilla, il proprietario
dei cavalli che dovremmo noleggiare dall'altra sponda
del lago O'Higgins: E' anche proprietario di un buon
hospedaje a Villa O'Higgins, meglio di cosi...
Attraversiamo gratuitamente, a bordo di un battello,
il fiordo sul pacifico per riprendere a pedalare dall'altra
parte. Praticamente il tratto di mare e' considerata
"carretera austral" per cui paga il governo
del Cile. Anche dall'altro lato il paesaggio e' lo stesso,
foreste e ancora foreste. Il percorso nella prima parte
e' veloce ma poi arriva la prima salitella spaccagambe.
Percorriamo altri 40 km prima di fermarci per piazzare
le tende vicino ad un campo di lavoro allestito per
ospitare gli operai che stanno costruendo un ponte in
cemento. L'intenzione e' quella di "scroccare"
un pasto caldo e magari anche un letto. Nulla da fare,
gli operai sarebbero ben disposti ma...occorre il visto
del capo. Lui arriva poco dopo ma non abbocca, e' veramente
un negriero allevato al carcere di Juma. Montiamo le
tende al riparo di una staccionata, il vento e' forte
e freddo. Consumiamo la nostra zuppa dove ci mettiamo
di tutto, riso, pollo, tonno. formaggio, pane e tanta
fame. Mentre consumiamo il nostro pasto, gli operai
dopo aver lavorato duro un giorno alle intemperie, disputano
una partita a pallone su un piazzale sassoso indossando
maglietta e scarponi da lavoro, qualcuno potrebbe far
lustro a qualche squadra di rango nei nostri campionati.
La notte piove forte ma all'alba fortunatamente riusciamo
a smontare le tende in una breve tregua. Riprendiamo
il percorso verso Villa O'Higgins che si fa conquistare
dopo aver scalato altre due durissime salite e percorso
un tratto di 10 km su una pietraia degna del peggior
pavé' della Roubaix.
Urla di gioia e foto di rito davanti al cartello "
bienvenidos a Villa O'Higgins".
La carretera finisce qui, oltre 1150 km di duro sterrato,
pioggia e vento, salite e discese rischiosissime percorsi
con un carico di 40 kg, bici esclusa. La sofferenza
e' stata tanta ma ne valeva la pena. I villaggi attraversati
sono abitati da povera gente, buona e disponibile. Anche
se qualcuno conserva l'immagine della vergine accanto
a quella di Pinochet, occorre ricordare che il "Generale"
gli ha tolti dall'isolamento, anche se che ti toglie
dai guai non sempre lo fa per farti del bene....
Troviamo subito l'Hostal di Tito, doccia
calda e veloce comida prima di andare a cercare Pirincho.
Lo troviamo la mattina successiva, come l'avevamo immaginato,
sembianze di Corto Maltese, una sessantina d'anni portati
"da marinaio". La sua casa e' un bazar, grande
disordine, ci sono pezzi meccanici sparsi sul pavimento,
cianfrusaglie accatastate. Al lato c'e' una grossa stufa
a legna. Mentre lui parla con un carabinero su problemi
di manutenzione della barca, la moglie, veramente degna
compagna di un capitano, un po su di peso e vestita
come peggio non si può', gli porge il calavaso
con la bombilla (contenitore del mate amargo) dopo averne
sorseggiato un pò ed aver sputato per terra qualche
frammento di foglia passata dal filtro, Pirincho fuma
come tre turchi e butta la cenere per terra, quando
finisce la sigaretta butta anche la cicca a far compagnia
alle altre sparse sul pavimento.
Attualmente a Villa O’Higgins un solo capitano civile,
venuto dalle isole dell’arcipelago de “Los Chonos”,
è capace di navigare per tutti i bracci del grande
lago grazie all’esperienza acquisita in vent’anni. Dispone
di due vecchie lance in disuso, un tempo utilizzate
per la pesca nel Pacifico, arrivate sul lago dopo un
lungo trasferimento su un carro trainato da buoi.El
Capitan le riparò e le trasformò ricorrendo
al suo ingegno e più volte è riuscito
ad evitare il naufragio con astuzia e abilità.
Il suo nome è Antonio Vidal però tutti
lo chiamano “Pirincho” (gazza grigia). Per legge tutte
le imbarcazioni necessitano di una “tripulaciòn”
(equipaggio), il secondo pilota della lancia è
sua moglie, Florentina Bahamondes, una discendente dei
primi popolatori della penisola “La Florida”. Da loro
ha ereditato la determinazione, la caparbietà,
il gusto per l’avventura e il buonumore così
che non solo ormeggia in equilibrio fra i flutti del
tempestoso lago, svuota la stiva quando l’acqua la riempie
e pesca salmoni, ma prepara delle deliziose torte fritte
per i viaggiatori.
Ci mettiamo d'accordo sulla partenza, il giorno dopo
alle 8,30 all'imbarcadero distante 8 km. Il prezzo e'
un dettaglio trascurabile, solo 2 euro per 50 km di
lago, paga il governo.
L'hostal dove alloggiamo e' veramente accogliente, mangiamo
divinamente, trucha al forno, cordero e tanto pane che
la moglie di Tito prepara in casa per la vendita. Quando
partiamo tira un sospiro di sollievo, stavamo mandando
in crisi la produzione per il villaggio ma la fame era
tanta ed il pane era buono. Domani ci imbarchiamo alla
volta di Candelario Mancilla e poi la ciliegina sulla
torta, varcare il confine più’ difficile del
sudamerica.
Alle 8,30 in punto siamo all’imbarcadero
del lago O’Higgins, ad attendere troviamo un ciclista
giapponese, è in viaggio da una settimana e va
nella nostra direzione. Ha i portapacchi anteriori rotti
e bloccati con delle fascette di plastica, rimedio al
guaio riparandoli definitamente con fascette d’acciaio
della mia scorta meccanica. Makoto, cosi si chiama,
mi ringrazia con un “arigato” e, messa da parte la prima
naturale diffidenza sul nostro colorito comportamento,
entra nel “gruppo”. Poco dopo arriva “el capitan” con
la sua tripulacion, moglie, figlia e genero. Smontiamo
le bici e i carrelli e carichiamo tutto sulla barca.
Con noi viaggiano anche 3 carabineros, un perro (cane)
e un tacchino. Pirincho mentre parla con un carabinero,
senza neanche guardare davanti manovra il timone con
estrema sensibilita', si vede che per lui, abituato
al tempestoso pacifico, questo lago e' un gioco. Per
50 km navighiamo su un lungo e stretto canale costeggiando
la riva destra, ben distanti dalla sponda argentina.
Lo scenario e' il solito, ormai consueto e quasi...noioso,
cascate e cime innevate. Dopo
4 ore sbarchiamo a Candelario Mancilla dove ci sono
solo 3 Carabineros in servizio alla dogana e Riccardo,
fratello di Tito, che vive nella sua stupenda estancia
con la madre settantacinquenne. Vivono soli e lontani
da qualsiasi forma di civilta' in un contesto semplicemente
indescrivibile. Una casa in legno ben arredata e ordinata,
una dependance fornita di tutto, stalla e recinti per
pecore, vacche e cavalli. Il giardino e' ben curato,
la primavera inoltrata, anche se fredda, ha fatto il
resto e l'esplosione di colori e' da cartolina. La vista
sul lago e' impagabile, qui sicuramente non conoscono
lo stress. La vecchia e' decisamente in forma, l'unico
acciacco e' un dolore al braccio che curiamo con una
delle nostre pomate. Anche se non abbiamo pedalato l'appetito
non manca, ci facciamo vendere una dozzina di uova,
patate, pane e pasta. Ci cuciniamo gli spaghetti conditi
con un sugo che Sergio magistralmente prepara e a cena
tutto il resto. La notte piove e nevica a quote relativamente
basse ma la mattina un timido sole ci aiuta nelle operazioni
di carico dei nostri pesanti fardelli sui cavalli.
Si parte scarichi e le bici ci sembrano
quasi inguidabili, ormai l'abitudine al peso era fatta.
Passato il controllo doganale incomincia una lunga salita
con forti pendenze su un fondo molto sconnesso. Dopo
15 km inizia la parte del percorso più bella,
un sentiero si snoda sotto un'imponente foresta tra
guadi e pantani. Le bici le portiamo a spalla a parte
qualche tratto pedalabile. Makoto, l'amico giapponese
che ormai ci segue con fiducia, stenta un po' nell'attraversare
i torrenti sui tronchi sottili e instabili ma riesce
a non farsi il bagno. Dopo una decina di km arriviamo
alla frontiera dell'Argentina, anche questa come quella
cilena sulle sponde di un lago, la laguna del desierto.
Di desierto non c'e' la minima traccia, un'imponente
ghiacciaio si butta sul lago dagli alti contrafforti
dello Hielo Continental Sur e le alte pareti del Fitz
Roy ci dicono che il nostro viaggio sta terminando.
Attendiamo due ore il battello che ci traghetta dall'altra
parte. Rimontiamo le bici e percorriamo gli ultimi
40 km di un percorso veramente unico. La fatica e' ancora
alta ma le endorfine che abbiamo accumulato in questi
15 giorni di duro pedalare ci fanno sentire euforici
e felici dell'impresa compiuta. A cena festeggiamo con
un ragazzo tedesco conosciuto all'hostal e con Makoto
in un asador. Parrilla e vino tinto, che anche il giapponese
beve, ci fanno ancora sognare e rivivere il percorso
compiuto, scorriamo nella nostra mente la strada, le
foreste e i tanti fiumi e laghi incontrati ma soprattutto
le persone conosciute per strada. La mama, Tito, Odina,
Riccardo, Luis, l'India, i tanti perritos coccolati,
gli operai del campo di lavoro e Pirincho sono ormai
entrati nei nelle nostre menti, difficile dimenticarli.
Il mattino seguente ci accorgiamo che il nostro viaggio
si è concluso veramente, quasi ci dispiace smontare
le bici e una forte nostalgia ci assale, siamo stati
catturati dal fascino della conquista di un territorio
senza uguali, siamo ritornati alla “civiltà”,
lentamente la macchina spremituristi ci risucchia inesorabilmente
e il fetido odore emanato dai piedi di una dolce ragazza
sull’autobus che ci conduce a El Calafate proprio non
lo sopporto, meglio l’alito di cipolle “dell’india samaritana”.
A El Calafate ho la sensazione d'essere in un qualsiasi
posto turistico del mondo. La gente spende inutilmente
i propri soldi per sciocchezze senza valore, i bus e
minibus continuano a vomitare orde multietniche di turisti
all'imbarcadero di Punta Banderas per scorrazzare nel
lago argentino tra i ghiacciai. Il Perito Moreno e'
un palcoscenico con vista sul ghiacciaio che, unico
al mondo, continua ad avanzare. Quando viene giu' il
ghiaccio sull'acqua, il rumore è coperto da un
unico uuuuhhhh, oooohhhhh. I ristoranti espongono agnelli
in croce davanti ai faggi in fiamme, quarti di bue su
enormi graticole, lomos, lomitos, morcillas, budella
e fegatini in attesa di bocche fameliche. I negozi espongono
di tutto e di piu', capi in pelle, attrezzature da escursionisti
provetti, carte dei parchi, bombillas e calavasi per
il mate ma.....la Patagonia non e' questa. La Patagonia
e' quella delle distese, della polvere, del vento, delle
estancias, dei gauchos, dell'asprezza di un territorio
immenso dove la presenza del turista disturba, la inquina,
la rende meno affascinante da quella che descrive Sepulveda
nei suoi racconti d'altri tempi.
Se venite in Patagonia sono sicuro che rimarrete delusi,
vi annoierete in lunghi trasferimenti su strade polverose,
paesaggi monotoni rotti solo dalla lontana cordigliera
innevata. La Patagonia rimarrà' impressa nella
vostra mente se avrete il coraggio di camminare contro
il forte vento su impervi sentieri sotto le grandi vette,
arrivare stremati ad un rifugio infreddoliti e bagnati,
dover montare la tenda perché' non c'e' un posto
al coperto, scaldarsi una zuppa liofilizzata al riparo
del vento e non potersi neanche accendere un fuoco perché',
giustamente, e' vietato. La Patagonia e' arrivare stanchi
dopo aver pedalato sotto l'acqua e controvento in un’estancia
e sentire i racconti dell'ovejero e bere con lui il
mate caldo secondo un rituale che ricorda quello che
facevano gli indiani d'america nel fumare dalla stessa
pipa. La Patagonia e' stare da soli in mezzo alla pampa
e sollevare lo sguardo verso il cielo, immenso, sempre
diverso e sentire solo il vento fischiare tra i bassi
e spinosi cespugli. Quello che quest'anno non ho avuto
sono le sensazioni forti della solitudine, essenziali
per assaporare a fondo una dimensione di te stesso in
un contesto unico fatto di tutto e nulla. Mi rendo conto che non tutti possono permettersi
di attraversare queste lande con una bicicletta e portarsi
dietro un carico da muli, ma sono contento che sia così.
Mi sono sempre chiesto cosa mi spinge a fare questi
viaggi. Ogni avventura ha i suoi momenti di riflessione,
quando devi vincere la tua angoscia interiore e trovare
la forza per andare avanti. E' una sensazione che accade
continuamente, senza sosta, ad ogni colpo di pedale,
metro per metro. Il viaggio autentico è quello
che si compie con la mente, non conta la preparazione
fisica o il talento naturale, conta il carattere e la
determinazione. Ci sono motivazioni dentro di noi che
vanno oltre ogni limite, forse la ricerca del desiderio
di gloria, la competitività, la sfida. Senza
rendercene conto veniamo catturati dalla bellezza di
ciò che ci sta attorno ed alla fine ne siamo
talmente contagiati sino ad esserne parte. La stessa
fatica di avanzare giorno dopo giorno trascinandosi
un carico impossibile, la volontà di continuare
non ha necessariamente una ragione materiale ma il desiderio
di vivere e ricordare a se stessi la gioia di esistere
anche quando la salita si fa dura.Quest'anno ho voluto condividere l'esperienza
con due compagni, Sergio e Daniele. Sergio e' il classico
uomo tenace e duro come i sardi, sempre avanti, a testa
bassa contro fatica, salita e acciacchi, mai vinto e
domo. Grande disponibilità e generosità,
carattere forte e freddo anche nelle situazioni più
difficili, non mi ha sorpreso, lo conosco ormai da vent'anni
e rimane una garanzia e un punto di riferimento per
intraprendere altre avventure. Daniele era l'incognita,
almeno per me, di questo viaggio. E' stata la sorpresa
positiva, anche lui ha pedalato duro senza mai mollare
anche quando la tendinite si faceva sentire. Mai un
lamento sulla durezza del percorso o l'inclemenza del
tempo, una garanzia per altri viaggi. Alla fine, anche
se stremati e senza possibilità di riparo, avevamo
l'allegria e l'entusiasmo di chi aveva compiuto un'impresa,
appagati, felici e...bagnati.
Gracias compañeros de viaje, que ve vaya bien.
Leggi i racconti di Enzo Pascalis:
"Fin del mondo"
"Sudamerica in bicicletta"